All models are wrong, but some are useful
George Box

I trattati di libero scambio – che riducono o aboliscono i dazi fra Paesi – sono uno dei temi più discussi di politica internazionale. Ciclicamente il mondo affronta fasi in cui si sostiene la bontà del libero scambio e fasi in cui prevale il protezionismo. Quello che sta succedendo oggi negli Stati Uniti (l’uscita dal Trans Pacific Partnership e i dazi verso Cina e Europa) non è una novità, ma l’ennesimo atto di un continuo scontro fra posizioni.

La domanda è: il commercio internazionale è “bene” o è “male”? Come già detto, quando si parla di economia è meglio chiedersi: “chi è avvantaggiato dal commercio internazionale e chi non lo è?”

Nella storia del pensiero economico, questo argomento è stato ampiamente discusso e sono state prodotte diverse teorie. Sì, teorie: ogni modello economico, infatti, si basa un insieme di ipotesi e assunzioni. Da ipotesi diverse conseguono conclusioni diverse e modelli diversi. Non esiste quindi un modello “giusto” o “sbagliato”, così come non esiste un modello capace di spiegare in toto la realtà. Esistono modelli utili che offrono punti di vista e intuizioni per comprendere un particolare aspetto della realtà.

Il primo ad occuparsi di commercio internazionale fu Adam Smith, l’economista scozzese che nel Wealth of Nations (1776) pose le basi dell’economia politica. Il primo contributo significativo è tuttavia offerto dall’inglese David Ricardo, che in Principles of Political Economy and Taxation (1817) elaborò la teoria dei vantaggi comparati.

David Ricardo (1772-1823), uno dei padri dell’economia classica

Il cuore della teoria è il concetto di vantaggio comparato: un Paese ha un vantaggio comparato (ad esempio nella produzione di computer) se il costo-opportunità della produzione di quel bene è inferiore rispetto ad altri Paesi, ovvero se a parità di risorse (lavoratori, capitale investito, ecc.) il Paese produce più beni. Se c’è un vantaggio comparato conviene specializzarsi nel bene in cui si è relativamente più capaci ed esportare le eccedenze in cambio di altri beni.

Considerate il seguente esempio: ci sono due Paesi (Stati Uniti e Messico), e due beni (diciamo computer e vino). In Messico, per fare un computer servono quattro persone, mentre negli Stati Uniti (che hanno delle tecnologie diverse, più avanzate, hanno i robot eccetera eccetera) basta una persona. Per fare un litro di vino in Messico servono due persone, mentre negli Stati Uniti ne serve sempre una (sono pieni di robot lì). Se ci sono un milione di lavoratori in Messico e un milione negli Stati Uniti, qual è il modo migliore per allocare le risorse? Agli Stati Uniti conviene produrre solamente computer (quindi saranno prodotti un milione di computer) e al Messico solo vino (e la produzione complessiva sarà di mezzo milione di litri). Se, ad esempio, fosse il contrario (Stati Uniti che producono vino e Messico che produce computer) in totale si produrrebbero 250.000 computer e un milione di litri di vino.

Il modello, chiaramente, è basato su un insieme di ipotesi piuttosto stringenti: ad esempio, si considera solo un fattore di produzione (nel nostro caso il lavoro). Le altre ipotesi (solo due Paesi e due beni) servono più che altro a semplificare il ragionamento, ma è possibile raggiungere un equilibrio analogo anche nel caso di più Paesi e più beni.

Il primo corollario importante che emerge è che, date le ipotesi, il commercio è sempre un bene, perché permette di ampliare le possibilità produttive.

Nell’esempio di prima, agli Stati Uniti conviene non produrre vino, ma impiegare tutte le risorse nella produzione di computer, esportarne le eccedenze e importare vino.[1]

Il secondo corollario importante è che il commercio è un bene per tutti, perché permette a tutti di avere a disposizione più beni allo stesso prezzo. Ricardo usò queste argomentazioni per sostenere la bontà del libero mercato.

Tutto giusto? La storia è ancora incompleta. Nella prossima puntata la DeLorean ci riporta al 1933, quando gli economisti svedesi Eli Heckscher e Bertil Ohlin rivoluzionarono la teoria del commercio internazionale avviando il percorso che portò a chiedersi “ma davvero il libero mercato fa stare meglio tutti?


[1] Per semplicità di esposizione, nel discorso non è stato inserito il tema dei prezzi.