Doppia fuga per due film iconici

Con due fughe si chiudono i film più rappresentativi della Nouvelle Vague e non sembra essere un caso. Verso il mare è la fuga del giovane protagonista de I quattrocento colpi, quel Jean-Pierre Laud dal viso incerto che sarà cavallo di battaglia e feticcio di tutto il movimento, e poi la fuga di Jean-Paul Belmondo che chiude Fino all’ultimo respiro che è soprattutto una corsa esistenziale, il moto dell’animo di chi nella vita non riesce a stare coi piedi per terra.

Alla fine degli anni Cinquanta il cinema di Francia cambia e il suo aspetto si fa meno patriarcale, come il paese tutto che non riesce a stare dentro a determinati margini che anche la Guerra d’Algeria aveva contribuito a eludere. Truffaut e Godard sono forse i nomi più identificativi di un movimento di cinema che oggi ancora è ricordato specialmente per il suo carattere di rottura e che serve, sopra ogni altra cosa, e elevare l’aspetto umano, o meglio: a identificare l’atto filmico con l’umanesimo di fondo cui questo è sotteso. Ora il cinema classico che aveva preceduto la Nouvelle Vague diveniva di colpo vetusto, eppure aveva ancora qualche cartuccia da sparare, come in un ritorno di fiamma, un colpo di coda. Primariamente, è bene specificarlo, le resistenze al movimento sono non poche e di cui tener conto. Se Jean-Paul Belmondo è l’attore che porta sulle spalle due tra i più noti e più bei film di Godard, Fino all’ultimo respiro e Il bandito delle undici – che con Questa è la mia vita rappresentano le vette più alte raggiunte dal regista – a lui si contrappone Alain Delon che nel 1959, grazie a Delitto in pieno sole di René Clement, diventa un divo di portata internazionale a soli 24 anni. Inizia per i due una rivalità – ma in fondo anche un’amicizia – che serve a veicolare due modi diversi se non opposti di intendere il divismo e la vita. All’atletismo e alla completezza di Belmondo, Delon contrappone un modello di virilità più tradizionale e dominante, di stampo conservativo. I due appariranno insieme, co-protagonisti, nel famosissimo Borsalino (1970) di Jacques Deray.

Vicino a Melville del quale condivide le idee politiche gaulliste, Delon è la testimonianza vivente che non tutto il cinema francese che fuoriesce dai primi Sessanta è Nouvelle Vague, anzi tutt’altro. In ogni caso, Belmondo non è il solo volto cardine per comprendere il movimento: almeno alla pari gli è, per popolarità nel periodo circoscritto, Jean-Pierre Leaud. Ai due si affianca poi un terzo elemento che in parte sembra contenere un po’ di entrambi la fatuità e l’impegno: è Jean-Claude Brialy, interprete, tra i molti film del periodo, di I cugini (1959) di Claude Chabrol, uno dei film d’esordio del movimento. Se, come dicevamo, la Nouvelle Vague non è il solo cinema a far parlare di sé, è certo vero però parimenti che da un punto di vista culturale, sociologico e financo intellettuale è questo un movimento che lascia il segno. Nasce l’agile cinepresa 16 mm che facilita le cose da un punto di vista pratico, snellendo a tal punto l’oggetto da renderlo quasi altra cosa. Oltre a Trauffaut e Godard, altri nomi importanti hanno molto da dire, per quanto non tutti si manifestino palesemente sotto le spoglie di “nouvellisti”: Chabrol e Rohmer, ad esempio, cineasti “cauti” che mettono in mostra le falle e i vizi della borghesia, e poi il grande Alain Resnais che fa ammattire lo spettatore giocando sulla coscienza di un tempo interiore non incasellabile e quasi bergsoniano, con L’anno scorso a Marienbad e Hiroshima mon amour. Allo stesso modo di Alain Resnais, cioè defilandosi e di fatto rimanendo un po’ per conto suo, anche il raffinato Louis Malle è “nouvellista” solo di “striscio”, perché va per conto suo. E suo è il capolavoro Fuoco fatuo, del 1960, tratto da un noto romanzo di Drieu La Rochelle già in preda a quell’antifurore che lo portò al suicidio, interpretato da un Maurice Ronet che raramente era stato così prestante e significativo sul grande schermo. Regista di rilievo, egualmente raffinato e distante dal movimento è Claude Sautet, che vivrà il suo periodo di maggiore prolificità dopo i ’70 seppure già nel 1960 usciva nelle sale con un eccellente noir d’azione, Asfalto che scotta, con protagonisti Jean Paul Belmondo e Lino Ventura.

Risposte alla Nouvelle Vague si palesarono anche attraverso i colpi di coda di Jean Gabin interprete, sempre più patriarca di una certa idea di Francia che si incamminava sul viale del tramonto.

Un movimento circoscritto e limitato

La Nouvelle Vague è un mito che ha superato sé stesso e Truffaut stesso con Effetto notte sembrò andare in tale direzione, quella forse della rimembranza, non certo dell’autocelebrazione, però dimostrativa. Ma a conti fatti è difficile dilatare il tempo e lo spazio che il movimento stesso si riservò nella sua intimità. Forse la Nouvelle Vague è stata mitizzata e sovrastimata e chi è molto giovane la tiene in gran conto per un certo suo andamento, per il modo poco serioso ma molto rigoroso con cui racconta la gravità della vita. Oppure, d’altro canto, il fatto di aver avuto la capacità di concentrare in così breve tempo un numero invidiabile di capolavori e di pellicole memorabili la rende una icona di freschezza senza tempo.

Scriveva lo stesso Truffaut nel 1959:

„Credo che la Nouvelle Vague abbia avuto una realtà anticipata. All’inizio era un’invenzione giornalistica, poi è diventata una cosa reale. Ad ogni modo, se non fosse stato coniato lo slogan giornalistico in coincidenza del Festival di Cannes, credo che sarebbe stata la forza delle cose a creare questa o un’altra denominazione, non appena si fosse preso coscienza del numero dei “primi film”. La Nouvelle Vague ha indicato dapprima un’inchiesta del tutto ufficiale effettuata in Francia da non so quale servizio di statistica sulla gioventù francese in generale. “La Nouvelle Vague erano i futuri medici, i futuri ingegneri, i futuri avvocati. L’inchiesta è stata pubblicata su “L’Express”, che ha le ha dato ampio spazio; e, nel giro di poche settimane, “L’Express” è uscito con, in prima pagina, questo sottotitolo: “L’Express”, il giornale della Nouvelle Vague.”

Da un punto di vista storico, il movimento segnò al cinema specialmente le stagioni 1959-1960, mentre poi andò scemando, ma il calo di spettatori al cinema non si fece sentire solo in Francia. Nella quale però tornarono in voga registi che non erano considerati “moderni”, e in questo si capisce anche la natura del successo di un film come La verità di Henry George-Clouzot, che valse a Brigitte Bardot la sua più straziante interpretazione, quella che ancora oggi mette i brividi.

Vi furono poi il naturalismo di un Pierre Granier-Deferre o l’inflessibilità storica di Claude Autant-Lara, uomo di destra dalle posizioni nette che negli ultimi anni di vita fu eletto addirittura con il Fronte Nazionale al Parlamento europeo, a fare da argine ai modernismi: per la verità il tutto avvenne senza stridore, in punta di piedi, ma alcuni prodotti usciti dalle loro filmografie lasciano il segno ancora oggi, per quanto distanti da una sensibilità contemporanea. Affiancato ai loro nomi, quello dell’ “artigiano” Henri Verneuil: suo il celeberrimo Il clan dei siciliani, che nel 1969 affiancò le tre più grandi star del cinema francese (assente solo Belmondo), più una vecchia gloria del cinema italiano: Jean Gabin, Alain Delon, Lino Ventura, Amedeo Nazzari. Fu un memorabile exit dai ’60 per una Francia che dava chiare indicazioni di voler tornare a “divertirsi” giocando in casa, senza dimenticarsi di strizzare un occhio al botteghino. Niente divagazioni intellettuali, pochi orpelli, molta azione e una girandola di uomini tradizionali, all’antica, marchiati col fuoco nel giocare a guardie e ladri.