Un paese sull’orlo della guerra civile, scontri nelle strade tra gruppi di manifestanti e tra questi e la polizia, informazioni frammentate e contraddittorie e un futuro quanto mai incerto. L’unica notizia sicura, nel caos che sta affliggendo la nazione andina, è che da una settimana Juan Evo Morales Ayma non è più il Presidente della Bolivia. Attualmente il 60enne originario del dipartimento di Oruro – da 14 anni ininterrottamente alla guida dello stato – si trova in Messico, sotto la protezione del ministro degli Esteri Marcelo Ebrard, e il suo posto è stato preso da Jeanine Áñez, senatrice del partito di opposizione Unión democrática e seconda donna a ricoprire l’incarico nella storia del Paese. Giurando sulla Bibbia, si è autoproclamata presidente nonostante, con il boicottaggio dei deputati fedeli a Morales, la seduta che avrebbe dovuto sancirne la nomina non abbia raggiunto il quorum.

«Di fronte all’assenza definitiva del presidente e del vicepresidente – si è affrettata a precisare, in riferimento alle dimissioni di Morales e in contemporanea del suo vice Álvaro García Linera – come stabilito dalla Costituzione assumo immediatamente, in qualità di presidente del Senato, la presidenza dello stato e mi impegno ad adottare tutte le misure necessarie per pacificare il paese». Dopo la vittoria di Morales alle elezioni del 20 ottobre scorso, su cui pesano accuse di brogli, sono scoppiate infatti aspre rivolte in tutte le principali città del Paese. A inchiodare il presidente uscente, oltre ai sospetti attorno allo spoglio, è stata la decisione di ripresentarsi per la quarta volta consecutiva quando la riforma costituzionale da lui stesso promossa limitava a due i mandati presidenziali. Per gli oppositori, la proverbiale goccia che fa traboccare il vaso. Per Morales, un colpo di stato.

Una delle tante manifestazioni anti-Morales dei giorni scorsi a La Paz [© Reuters]

Fin qui, come detto, le notizie certe. Ma riuscire a ricostruire con precisione rapporti di forza e schieramenti in campo quando si parla di un Paese come la Bolivia è opera assai ardua. Al di là di come la si pensi a proposito della definizione stessa di golpe (argomento spinoso per il quale rimandiamo volentieri ad altre sedi), le dimissioni di Morales, “suggerite” da militari e polizia, segnano uno spartiacque nella politica boliviana e sudamericana tutta: impossibile quindi non cogliere l’occasione per provare a tracciare un bilancio del quindicennio appena trascorso. Un’epoca che l’ha visto divenire dominus della politica interna e poi – in seguito alla morte del suo omologo venezuelano Hugo Chávez – punto di riferimento per molti dei movimenti progressisti del continente. Ora però quel modello, quella rivoluzione bolivariana tanto cara allo stesso Chávez, sembra aver fatto il suo tempo.

Anti-imperialismo, socialismo di matrice populista e grande attenzione all’inclusione dei gruppi etnici storicamente ai margini della società. Quest’ultimo punto in particolare ha suscitato grandi speranze in un Paese in cui la popolazione indigena rappresenta – caso unico in Sudamerica – la maggioranza assoluta, senza però aver mai espresso un presidente della Repubblica nei 180 anni di Storia precedenti all’elezione di Morales. In un territorio grande più di tre volte e mezzo l’Italia (ma con soli 10 milioni di abitanti) convivono circa quaranta diversi gruppi etnici: lo stesso Morales, ateo, è di etnia Aymara. Un orgullo indigeno che l’ex Presidente non ha mai perso occasione di esibire, a partire dall’onnipresente wiphala – la bandiera a scacchi arcobaleno dei popoli che costituivano l’antico impero Inca – fino al nome stesso del Paese, ribattezzato Estado Plurinacional.

Evo Morales in una foto di sei anni fa, con alle spalle la Wiphala [© Ministerio de Comunicación]

Un Paese spaccato letteralmente in due. Il più indio e insieme il meno densamente popolato del continente, di gran lunga il più povero e arretrato ma uno dei più ricchi di risorse minerarie: argento, rame e litio su tutte. È grazie ai suoi continui ammiccamenti al senso di revancha degli strati etnico-sociali emarginati e alle sue politiche di lotta alla povertà che Morales è riuscito a dominare per 14 anni la Bolivia «più con il consenso che con la coercizione», per citare un articolo comparso a gennaio su un giornale tutt’altro che indulgente nei suoi confronti come l’Economist. Ex cocalero (così sono chiamati i coltivatori di coca) e rappresentante sindacale della categoria, è eletto deputato per la prima volta nel ’97. Alla guida del Mas (Movimento al socialismo) conquista il 21% alle presidenziali del 2002 e un’impressionante 54% tre anni dopo. Nessuno aveva mai superato il 50%.

Ancora nel 2005 il tasso di alfabetizzazione superava di poco l’85% e si registrava una mortalità infantile vicina al 5%. Oggi quest’ultima è dimezzata e la Bolivia è stato il terzo paese latinoamericano, dopo Cuba e Venezuela, ad (annunciare di) aver azzerato l’analfabetismo. Giunto alla presidenza in un momento particolarmente fortunato per le sinistre del continente (tra il 2003 e il 2007 salgono al potere Lula in Brasile, Kirchner in Argentina, Bachelet in Cile e Correa in Ecuador), Morales si propone subito di nazionalizzare le risorse naturali del Paese, ribaltando la proporzione nella ripartizione dei profitti: lo Stato non incasserà più il 18% ma l’82% dei proventi derivanti dall’estrazione di idrocarburi. In un anno le entrate passano da 200 milioni a 1,3 miliardi. Risorse che – sul modello venezuelano – il governo intende subito reinvestire in misure di contrasto alla povertà.

Hugo Chávez, Fidel Castro ed Evo Morales insieme in Plaza de la Revolución all’Avana nel 2006 [© Reuters]

In effetti negli anni di Morales la povertà assoluta scende dal 32% al 12%, anche grazie a una serie di sussidi e convenzioni, come quelle a favore degli anziani, delle donne incinte e dei ragazzi che proseguono gli studi. Negli ultimi 15 anni la Bolivia ha avuto un tasso di crescita medio del 5% annuo e lo stesso Pil pro capite ne ha giovato, passando da 1.000 a più di 3.500 dollari. Quanto questo sia merito del governo e quanto della crescita costante del prezzo delle materie prime, che nell’ultimo biennio ha subito una brusca frenata, è difficile dire. Quel che è certo è che con il passare del tempo Morales, mantenendo posizioni progressiste e anti-americane, si è gradualmente allontanato dal radicalismo che ha contraddistinto l’operato di Chávez e Maduro in Venezuela: non si è fatto per esempio troppi problemi ad autorizzare nuove concessioni minerarie e disboscamenti in Amazzonia.

Sono proprio questi ultimi due punti ad aver sollevato più di una critica anche da parte di alcuni dei suoi sostenitori della prima ora: la “svendita” di settori strategici del Paese, quando non di intere regioni, a russi e cinesi ha fatto storcere la bocca a molti. L’accusa è di essere passati dal giogo dell’imperialismo Usa a quello delle altre potenze mondiali. In particolare, il lassismo dimostrato nei confronti dell’immenso patrimonio amazzonico cozza in maniera plateale con i proclami di difesa della “madre terra” (pachamama), alla base delle credenze pre-cristiane della popolazione indigena che dell’elettorato di Morales è tuttora, nonostante tutto, lo zoccolo duro. Chi invece lo ha sempre contrastato è la minoranza bianca benestante, guidata da Luis Fernando Camacho, avversa alle sue politiche quando non nostalgica della dittatura militare che stritolò il Paese dal 1964 all’82.

Contro-manifestazioni a sostegno di Morales lo scorso 11 novembre a Buenos Aires [© Reuters]

Morales ci ha certamente messo del suo. E non solo per la sua ipocrisia nella gestione del patrimonio pubblico e per le ambiguità dimostrate nella lotta al narcotraffico, esemplificate dal celebre slogan coca sí, cocaina no. Pur senza raggiungere i parossismi di altri regimi sudamericani, infatti, Morales non ha mai nascosto il suo fastidio nei confronti della stampa critica e dei funzionari non allineati e si è più volte contraddetto, a stretto giro, in merito alla volontà di ricandidarsi. A partire dal giuramento con cui nel 2008 garantì che non si sarebbe candidato per un terzo mandato, salvo poi stravincere nel 2014 con oltre il 60% dei suffragi. Fino al referendum (perso) indetto nel 2016 per abolire il limite ai mandati da lui stesso imposto 8 anni prima e al ricorso presentato al Tribunale Supremo, organo tutt’altro che imparziale che bollò quel limite come una violazione dei diritti umani.

Ecco perché il Guardian, non più tardi di un mese fa, tratteggiava una Bolivia di fronte a un bivio: da una parte un governo che sembrava oramai aver esaurito la sua energia propulsiva e con preoccupanti tendenze autoritarie, dall’altra un’opposizione composta spesso da razzisti nostalgici della dittatura. E soprattutto divisa. Divisioni che al primo turno hanno giovato a Morales ma che a un eventuale ballottaggio avrebbero rischiato di essere superate in nome del nemico comune. Ed è stata proprio la vicinanza sospetta ai 10 punti di distanza con Carlos Mesa a far gridare al broglio. Per la prima volta anche esercito e polizia gli hanno voltato le spalle. Insieme – sembra – a parte del suo elettorato storico. Dalla sua si sono invece schierati molti leader della sinistra europea e americana, dallo spagnolo Pablo Iglesias a Bernie Sanders. Morales da Città del Messico aspetta e rimugina.