Per oltre un’ora s’è atteso Polanski dentro il suo film e, fattasi una certa, Polanski è arrivato. Giusto per ricordare a sé stesso e allo spettatore come e perché, pur a seguito di tante primavere, è ancora lì a fare (bene) il suo mestiere. Ma, come si è palesato, così uno dei registi più discussi della seconda metà del secolo ventesimo è poi tornato a giocare a nascondino, mettendo la testa dentro e fuori di un lungometraggio che gli appartiene e non gli appartiene, lascia il segno e si fa dimenticare, accenna a cambiare ritmo narrativo più volte per poi disattendersi. Il vecchio Roman ha evitato scientemente la trappola dell’autocommiserazione, quella troppo scontata analogia che lo avrebbe portato a girare un film su Dreyfus per fare una reductio coi fiocchi. Considerare in astratto il Principe dei casi di accanimento e gogna nella storia dell’Occidente moderno per traslarlo sul suo vissuto di uomo al quale – rovesciando le parti politiche – una certa sinistra attivista e inferocita, specialmente in Francia, non perdona ormai nemmeno più di respirare.

Non addentriamoci nei meandri di una storia stanca che tutti conoscono. In ogni caso, il franco-polacco ha una predilezione atavica per le ossessioni e i martiri che è inconfutabile da un punto di vista biografico: basti pensare a uno dei suoi più riusciti e fortunati film, quello peraltro che lo vide capace di dirigere sé stesso, L’inquilino del terzo piano (1976). Né può mancare nella sua (ormai lunga) carriera una certa abitudine a gestire la tensione narrativa in un crescendo che spesso ha raggiunto l’apice con una connotazione metafisica, dove l’orrore veniva suggerito più che mostrato, attestandosi dunque in una dimensione ancora più carica di simbolismi spaventevoli. Rosemary’s baby (1968) è l’esempio che tutti, ma proprio tutti, hanno nella testa ma sulla stessa scia, pregressi o successivi, si attestano Repulsione, Frantic, oltre al già citato Inquilino. Thriller è anche L’uomo nell’ombra, il più riuscito tra i grandi film del periodo tardo di Polanski, pur scevro di una dimensione orrorifica: tratto da un romanzo di Robert Harris, come questa ultima opera.

Non è mancata la tensione ne L’ufficiale e la spia, vergognosa traduzione del più manifesto e ovvio titolo originale J’accuse, che si rifà all’editoriale di Émile Zola, capace di elevare la vicenda dell’ufficiale Dreyfus a caso di interesse internazionale, consegnandolo alla storia. Se la ricostruzione di Polanski fila come un treno nella notte nei binari di un classicismo narrativo che non lascia spazio a sensazionalismi né isterismi, va detto che pur lasciando notevole importanza ai dialoghi, anche interpersonali, il film cerca un cambio di passo che si fa attendere con grande difficoltà. Non è mancato neanche un clima storico e politico confezionato con eccellenza, pur senza quell’approfondimento che sarebbe servito a condire una visione d’insieme già di per sé corretta, inconfutabile. Quasi quindici anni fa il regista aveva messo in immagini un’Inghilterra vittoriana cupa e tenebrosa, quella di Oliver Twist; oggi è tornato nella sua Francia adottiva nella quale non è stato difficile, specialmente nella seconda parte, addentrarsi in quel clima che in fondo altro non fu che la belle époque, nonostante i casi Dreyfus.

Qua e là Polanski ha disseminato il suo talento ma si è accontentato di vincere ai punti un incontro nel quale non ha avuto la foga di portare il colpo del Ko. Se sia stato nell’era digital la diffamazione il tema portante del discorso o la vocazione di un regista mai pago di raccontare uomini braccati dal destino rimane dibattito aperto; c’è comunque qualcosa del kubrickiano Orizzonti di gloria in questo film d’autore che a suo modo sembra un’opera senile. Passati i cinquant’anni Emanuelle Seigner, moglie di Polanski che sotto la sua egida aveva esordito nel 1988 in Frantic, porta ancora meravigliosamente il suo corpo e i tratti del suo viso, che addolciscono un film di soli uomini e soldatini dove un certo clima marziale contribuisce a rendere ancor più grave un’atmosfera già di per sé non fatua.