Morte accidentale di un anarchico, rappresentato per la prima volta il 5 dicembre 1970, è un testo teatrale dedicato alla “morte accidentale” dell’anarchico Giuseppe Pinelli, volato giù dalla finestra del quarto piano della questura di Milano il 15 dicembre 1969, durante un interrogatorio. Pinelli si trovava in questura per accertamenti in seguito all’esplosione di una bomba nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura a Piazza Fontana, illegalmente trattenuto poiché erano già scadute le quarantotto ore di fermo. In una prima versione il titolo intero era Morte accidentale di un anarchico defenestrato. Più o meno un anno prima, Dario Fo e Franca Rame avevano preso una decisione radicale: abbandonare i palcoscenici e le platee borghesi, dove erano ormai una ditta di successo, dare un calcio agli incassi facili e tentare l’avventura del teatro autogestito. Stanchi di essere i giullari della borghesia, danno vita a un progetto che è insieme teatrale e politico: arrivare a quella massa di non-pubblico, a quella “immensa umanità che resta di fatto esclusa dalla nostra società, dare a tutte le persone continue occasioni di politicizzarsi”, senza rinunciare alla creatività e al massimo della professionalità artistica.

Il confronto con il pubblico, la documentazione, la discussione dei temi, il desiderio di rappresentare l’attualità sono centrali in questo nuovo modo di far teatro che a partire dal novembre del 1970 ha il suo centro in un ex capannone industriale, in via Colletta 24, a Milano. Durante la primavera di quell’anno, gli spettatori e le persone che seguivano le attività di Fo sollecitavano una discussione sulle bombe di Milano e sull’assassinio di Pinelli, perché attorno al caso si era creato un pauroso vuoto di informazione. Nell’estate del 1970 era uscito il libro d’inchiesta pubblicato da Giuseppe Paolo Samonà e Giulio Savelli intitolato La strage di stato; nell’autunno, Lotta Continua e il suo direttore Pio Baldelli erano stati denunciati per diffamazione dal commissario Luigi Calabresi, dirigente responsabile dell’interrogatorio di Pinelli e dell’intera indagine. Fo comprende la necessità di muoversi al più presto: “Bisognava parlare perché la gente che è sempre distratta, che legge poco e male e solo quel che gli passa il convento, sapesse come lo stato può organizzare il massacro e gestire il pianto, lo sdegno, le medaglie alle vedove e agli orfani, e i funerali con i carabinieri sull’attenti”. Comincia un lavoro di inchiesta, sceglie di scrivere una farsa perché penosamente grotteschi risultavano gli atti delle istruttorie e le contraddizioni delle dichiarazioni ufficiali. Il debutto dello spettacolo coincide con i giorni in cui si celebra il processo a Pio Baldelli.  

Franca Rame e Dario Fo, 1970. Ph. Afp

Un Matto, proprio matto matto, affetto da istrionomania, con l’irrefrenabile pulsione cioè a recitare sempre e parti sempre diverse, scartabellando tra le carte di un commissariato si imbatte in un strano fatto: “secondo i verbali numero venticinque, ventisei, ventisette e ventotene.. La sera del ..la data non ci interessa..un anarchico, di professione manovratore delle ferrovie, si trovava in questa stanza per essere interrogato circa la sua partecipazione o meno all’operazione dinamitarda alle banche, che aveva causato la morte di ben sedici cittadini innocenti. Verso mezzanotte l’anarchico, preso da raptus si è buttato dalla finestra.” Ma che raptus? In preda al panico… ma perché? Se nei verbali troviamo scritto che “sorrideva incredulo”… E perché la finestra della questura era aperta nel gelo di dicembre? Si scrive che “sussistevano pesanti indizi sul suo conto”… emerge invece che il ferroviere aveva un alibi e che per estorcere una confessione gli era stato raccontato che un amico di Roma si era già confessato autore della strage. Non era vero ovviamente. E tuttavia  – si discolpa il Commissario – non può esser stato questo scherzo a provocare il raptus suicida: i poliziotti avrebbero detto di avere le prove alle ore 20, mentre il ferroviere si sarebbe suicidato a mezzanotte. La polizia non ha colpa… ma allora il raptus? Eh beh… è un raptus… è immotivato per definizione. Già. E poi: era un salto piuttosto alto per un uomo della sua altezza…come avrà fatto? Ha preso la rincorsa? Aveva delle scarpette con tacchetti elastici? Lanciarsi giù sembra un’operazione complessa e poco veloce. Troppo poco veloce perché i poliziotti non riuscissero a bloccarlo. Nell’eventualità sempre del raptus, si capisce.

Le storie fornite dalla polizia si contraddicono, ogni versione corregge un punto ma ne scopre altri, il Matto conduce un’inchiesta a partire da quanto dichiarato nei verbali, sviscerando, mettendo analiticamente in discussione le incongruenze. L’ambulanza è stata chiamata cinque minuti prima che il ferroviere commettesse il presunto suicidio. Viene il dubbio: era vivo o era già morto quando è caduto dalla finestra? Salta fuori la lettera di un anarchico detenuto a San Vittore che racconta le pratiche di intimidazione del Commissario, tra cui mettere gli interrogati a cavalcioni della finestra. Serpeggia un’ipotesi – è il Matto a proporla: uno dei presenti, giusto qualche minuto prima di mezzanotte, si sarebbe spazientito e avrebbe colpito con violenza il ferroviere. Quest’ultimo sarebbe rimasto semi paralizzato, non respirava più, così l’avrebbero portato vicino alla finestra… ed è scivolato di sotto. Il Matto avanza altre ipotesi più ardite. Certo lui può, è Matto: “Quel massacro di innocenti alla banca era servito unicamente per affossare le lotte dell’autunno caldo…creare la tensione adatta a far sì che i cittadini disgustati, indignati da tanta criminalità sovversiva, fossero loro stessi a chiedere l’avvento dello stato forte.” Il matto è così matto da recitare benissimo il ruolo del magistrato, riesce a far confessare a questori e commissari i loro stessi trucchi.  Ogni volta che dice qualcosa di scandaloso, cioè ogni volta che dice la verità, il commissario e il questore esclamano “Costui è matto!”

Una scena di Morte accidentale di un anarchico Ph. Archivio Franca Rame Dario Fo

La commedia veniva introdotta da un breve prologo, che affermava l’intenzione di raccontare un fatto realmente accaduto: il volo da una finestra del quattordicesimo piano del palazzo della polizia di New York dell’emigrante italiano Andrea Salsedo, anarchico. Era il 1921 e ci vollero perizie e inchieste per accertare che l’anarchico non era morto accidentalmente o per suicidio, era stato assassinato dai poliziotti durante l’interrogatorio. Se veniva riscontrata qualche analogia con eventi a noi più vicini, doveva trattarsi di una coincidenza attribuibile “a quell’indecifrabile magia, costante nel teatro in quanto reinvenzione della realtà, che in infinite occasioni ha fatto sì che storie pazzesche, completamente inventate, si siano trovate ad essere imitate dalla realtà”.

Mentre lo spettacolo andava in scena in via Colletta, procedeva il processo di stato, ma procedeva anche una grande contro-inchiesta volta a scoprire quello che era stato manomesso o taciuto. Mano a mano che si acquisivano nuove informazioni, queste venivano integrate nello spettacolo, che cambiava così di sera in sera, in un’infinita attività di riscrittura. Il testo ha continuato ad aggiornarsi e a seguire gli sviluppi del caso Pinelli anche negli anni a venire. L’allestimento dello spettacolo costò a Fo più di quaranta processi in varie parti d’Italia. Molti giornali lo stroncarono dicendo che era un volantino politico, che non era teatro. Il successo di pubblico però fu enorme: dopo un mese di pienoni a Milano, nello spazio di via Colletta, partì in tournée. Accorsero presto operatori stranieri per acquistare i diritti di rappresentazione, già nel 1972 debutta in Danimarca in due diversi teatri. A oggi si contano 339 produzioni (si intende non repliche, ma nuovi allestimenti dello spettacolo) in tutto il mondo, escluse le rappresentazioni in Italia; è stato tradotto in 19 lingue e rappresentato in 53 paesi.

Ph. bibliotecateatrale.com

Quale la ragione del successo? Morte accidentale di un anarchico è portatore di un sapere politico più profondo e universale, che trascende la tragica vicenda di Giuseppe Pinelli e guarda ai meccanismi di dominazione e conservazione del potere: “Lo scandalo è il concime della socialdemocrazia. Lo scandalo è il miglior antidoto al peggior veleno, che è la presa di coscienza del popolo: se il popolo prende coscienza siamo fregati! Infatti l’America, che è un paese veramente socialdemocratico, ha mai messo censure su quello che riguarda le stragi fatte dagli americani nel Vietnam? No, anzi: su tutti i giornali sono venute fuori foto di donne sgozzate, bambini, villaggi distrutti. Non si è messa censura a questi scandali. Così la gente ha la possibilità di indignarsi, orripilarsi: ma che razza di governo è? Generali schifosi! Assassini! E s’indigna, s’indigna e burp! Il ruttino liberatore! L’indignazione che si placa attraverso il ruttino dello scandalo, lo scandalo come catarsi liberatoria del sistema. Il rutto liberatorio che esplode quando si viene a scoprire che massacri, truffe, assassinii sono organizzati e messi in atto proprio dallo Stato e dagli organi che ci dovrebbero proteggere”. Lo scandalo anche quando non c’è bisogna inventarlo, perché è un ottimo modo per scaricare le coscienze mantenendo il potere.  Ci si scandalizza ma niente cambia.  E dal 1970 a oggi gli esempi non sono mancati.