A cura di Francesco Chirico

Si parla spesso dell’Amazzonia, della deforestazione e degli alberi abbattuti, ma ci si dimentica quasi sempre di abbassare lo sguardo appena sotto ai nostri piedi, per vedere il suolo. Mentre gli alberi vengono difesi a spada tratta, il suolo è considerato come materia morta. Al contrario, non c’è nulla di più vivo di esso: è l’unica risorsa in grado di trasformare la morte in vita.

Per suolo si intendono i primi 70 – 200 cm superficiali del terreno, quindi è uno strato molto sottile, definito anche “la pelle del pianeta”. Proprio come la nostra pelle, il suolo è l’interfaccia con l’esterno, qui avvengono gli scambi tra terra, aria e acqua. Non si tratta solo di minerali e acqua. Un suolo vivo contiene una grande quantità di organismi viventi: si stima che un quarto della biodiversità del pianeta stia proprio sotto ai nostri piedi.
Raramente viene citato come tale, ma il suolo è una risorsa non rinnovabile. Per la formazione di 2,5 cm di suolo sono necessari 500 anni, 2000 anni per uno spessore di 10 cm. Se viene completamente ucciso il suolo in un’area, per esempio costruendoci sopra, possono volerci fino a 40 mila anni per rigenerarlo!

Solo i primi 70 – 200 cm dalla superficie sono suolo, la cosiddetta “pelle del pianeta”. ©Wikipedia

Suolo e acqua

Questo organo vitale del nostro pianeta ha molteplici funzioni, che spesso passano inosservate. 

Un suolo vivo, non cementificato, trattiene spontaneamente fino a 3,8 milioni di litri d’acqua per ettaro

Se dovessimo farlo noi, ci servirebbero circa 143 TIR!
Se uccidiamo il suolo, quei 143 TIR ricadranno sulle nostre spalle senza pensarci due volte.
Infatti quando piove, l’acqua non scorre subito verso valle, viene trattenuta dal suolo. Parte di quest’acqua viene assorbita dalle radici delle piante o altri organismi viventi. Tutto il resto viene piano piano rilasciato verso valle, si incanala nei torrenti, poi nei fiumi, e lentamente scorre verso il mare. 
Se l’acqua piovana incontra il cemento invece che il suolo, non avviene nulla di tutto questo: ogni goccia d’acqua si precipita verso valle e genera un’onda di piena nei nostri fiumi.

Alluvioni, piene fluviali e inondazioni vengono accentuate con il consumo di suolo, che limita la capacità del terreno di trattenere l’acqua piovana. ©CNN – Hoklahoma

È vero che i cambiamenti climatici stanno aumentando la probabilità degli eventi estremi, come le piene. È vero anche che se cementifichiamo gran parte dei bacini idrografici dei fiumi e chiudiamo gli stessi in tubature sotterranee, perdiamo il diritto di lamentarci delle piene fluviali. Quando si sostiene che “una volta i fiumi non esondavano come oggi”, ricordiamoci anche che una volta le persone erano in grado di vivere in simbiosi con l’ambiente circostante, senza la pretesa di essere gli unici esseri viventi a calpestare il suolo. 

Suolo e aria

Nei primi 30 cm di suolo agricolo si accumulano 60 tonnellate di carbonio per ettaro. Zero se urbanizzato. 

La CO2 è la colpevole principale dell’effetto serra. Per compensare le emissioni di anidride carbonica esistono gli alberi e tutte le specie vegetali che producono ossigeno consumando CO2. Nei bilanci del carbonio però, gli alberi sono spesso considerati come sink del carbonio, come se tenessero in prestito il carbonio. L’importante è che la biomassa rimanga invariata, ma abbattere un albero e piantarne un altro non porta grandi differenze. Ovviamente va fatto in maniera responsabile e ottimizzata, per questo ci sono una serie di modelli matematici per calcolare il momento esatto in cui conviene tagliare un albero.

Al contrario, il suolo è considerato uno stock di carbonio: qui il carbonio sta e starà per sempre. Almeno finché il suolo è vivo. 
A livello globale, è molto più grave cementificare un’area, rispetto a tagliare un albero: entrambi si riformeranno in futuro, ma per il suolo bisogna aspettare centinaia o migliaia di anni. 

Punti deboli

Come ogni essere vivente, anche il suolo ha i suoi punti deboli. Il più evidente è l’impermeabilizzazione. Ogni volta che viene compresso, il suolo perde in parte le sue proprietà, ma quando viene coperto da cemento (o simili) muore definitivamente. Il processo è irreversibile, non basta togliere una casa per far rinascere il suolo. Se nel caso degli alberi si può togliere un albero e piantare un altro, con il suolo non si può fare! Attenzione quindi ai progetti in cui vengono costruite case su terreni ancora vivi, e al posto loro vengono dismesse altrettante aree urbanizzate. Il risultato è comunque un consumo di suolo doppio. 
Ci sono altre minacce, ma più naturali dell’impermeabilizzazione: erosione, movimenti franosi e salinizzazione sono processi naturali di distruzione del suolo. Aumenteranno anche loro con il Climate Change, ma su questi abbiamo meno controllo. 

L’Italia, il suolo e noi

In Italia vengono impermeabilizzati 8 metri quadri di suolo al secondo! Questo significa, ogni giorno, 259 milioni di litri d’acqua da gestire, 17 mila tonnellate di CO2 emesse, e una riduzione delle superfici agricole, da cui viene il cibo che mettiamo in tavola. 

L’urbanizzazione é stata sregolata fino ad oggi. Non si vede una fine, almeno a breve, del dilagare delle città verso l’infinito e oltre. Un vano tentativo era stato fatto con l’introduzione degli oneri di urbanizzazione, degenerati in un vero e proprio bancomat per le casse comunali, perdendo completamente il senso iniziale.

Milano (al centro) non ha avuto nessun freno all’urbanizzazione. Mentre a Sud si vede un confine con i terreni agricoli, a Nord sembra non avere una fine. ©GoogleMaps

La politica avrebbe molti strumenti per limitare i precursori di consumo di suolo, azzerare il consumo di suolo stesso e riqualificare aree già urbanizzate anziché costruire su terreni ancora vivi. Molto si può imparare dall’estero, e vedremo sempre su #vinland possibili soluzioni già adottate con successo. 

Come cittadini intanto, possiamo informarci e informare, fare pressioni dal basso verso un consumo di suolo zero, ed evitare di consumarne noi per primi. 

Fonti

Che cosa c’è sotto. Paolo Pileri – Altraeconomia, 2016