«Ci vorrebbe un grande storico e filosofo – affermava sulle note della marcia dei British Granadiers il narratore di Barry Lyndon, il libro di William Makepeace Thackeray, reso immortale dal film di Stanley Kubrick – per raccontare la Guerra dei Sette Anni».
Lo stesso vale per il torneo di rugby più prestigioso del continente, il 6 Nazioni. Accontentiamoci di dire che è nato nel dicembre 1882, ma che ben presto le 4 rappresentative britanniche dell’Home Nations trovarono il modo per entrare in disaccordo, impedendo di fatto fino al secondo dopoguerra il normale svolgimento del calendario. Quando finalmente nel 1910 il Torneo si estese Oltremanica, la vita del primo 5 nazioni fu di breve durata. La neo entrata Francia venne bandita dal 1931 al 1939 per accuse di gioco scorretto e ricorso al professionismo – una sorta di crimine in uno sport che ha sempre veicolato i valori dell’Inghilterra vittoriana: divertimento elitario, fair play e, sopratutto, dilettantismo.

Se queste note non vi suonano familiari, non disperate: a breve arrivano i nostri

Mi ha chiamato al telefono Roger Pickering, direttore esecutivo del Cinque Nazioni, e mi ha detto: l’Italia è stata accettata, felicitazioni!

Ancora oggi Franco Dondi, ex presidente della FIR, ricorda con emozione quei mesi a cavallo tra il 1997 e il 1998: il periodo più glorioso della storia della nostra palla ovale. Il 22 marzo 1997, a Grenoble contro i padroni di casa francesi – freschi vincitori del 5 nazioni con un Grande slam – gli azzurri vincono la finale della Coppa Fira, l’equivalente di un Europeo. Alla competizione non partecipano le nazionali britanniche, ma in quei giorni convulsi ed eroici l’Italia batte a ripetizione – in casa e fuori – Irlanda, Scozia e Galles. Il rugby che conta si convince: 16 gennaio 1998 con un breve ma significativo comunicato i dirigenti del 5 Nazioni esprimono il loro verdetto favorevole al nostro ingresso nel massimo torneo continentale a partire dall’edizione 2000. Parere poi confermato al telefono qualche giorno dopo dal Rugby Union mondiale.

Così il 5 febbraio di vent’anni fa l’Italrugby ha fatto il suo esordio nel neonato Six Nations, di cui è appena iniziata la 126ma edizione. Salvo alcune sporadiche epopee – come il terzo posto con tre vittorie nel 2011 – il massimo torneo continentale ci ha riservato più amarezze che gioie. Per ben 14 volte abbiamo collezionato il cucchiaio di legno, destinato agli ultimi classificati; in nove edizioni non abbiamo realizzato un punto; siamo scivolati al 14esimo posto del ranking; non vincevamo al 6 Nazioni da 22 partite, che sono diventate 23 con prima sconfitta di questo 6N 2020, in Galles 42 a 0. Abbiamo un allenatore ad interim – il sudafricano Franco Smith, al posto dell’irlandese Connor O’Shea, dimessosi dopo l’ennesimo mondiale deludente – e il nostro capitano e giocatore simbolo Sergio Parisse è infortunato e prossimo al ritiro. Un quinto di secolo dai contorni più scuri che chiari per i colori azzurri al 6 Nazioni. Per nostra fortuna “azzurro” è un aggettivo declinabile con un diminutivo e soprattutto al femminile.

Il 6 nazioni, piaccia o non piaccia, è iniziato. Venerdì la nostra under 20 ha vinto in Galles, 17 a 7. Secondo On Rugby, uno dei principali portali per gli appassionati della palla ovale, i nostri ragazzi quest’anno hanno un tasso di esperienza e una qualità superiore al passato. La covata dei classe 2000 ha qualità, come dimostrano i caps collezionati nel campionato Top 12: il capitano Paolo Garbisi gioca con continuità nel Petrarca Padova; Jacopo Trulla e Federico Mori di Calvisano, comparendo anche in Challenge Cup.

Ci sono poi Giulio Bertaccini e Filippo Alongi della Benetton ed alcuni nati nel 2001 di ottima prospettiva. La qualità è diffusa e per la prima volta sembrano esserci attenzione ed aspettative intorno alla selezione che ospiterà il mondiale di categoria la prossima estate. L’obiettivo dichiarato è quello di replicare dovrebbe essere replicare il Sei Nazioni di due anni fa: con la vittoria in Galles gli azzurrini sono già a metà dell’opera. Nel 2018 hanno battuto la Scozia in casa, un obbiettivo possibile.

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Il futuro del rugby azzurro è rosa, lo dicono i risultati e il percorso di crescita dell’Italia femminile. Il 6 giugno 1985, allo stadio Nicoletti di Riccione andò in scena la prima partita della nostra selezione femminile: un orrendo 0 a 0 contro la Francia. «La gente ci guardava come fossimo marziane», conferma Maria Cristina Tonna che quel giorno scese in campo, a solo 15 anni. Nel giro di una generazione la nazionale è entrare nella FIR, ha vinto tre manifestazioni internazionali FIRA, partecipato a quattro mondiali ed è stata accolta nel 2007 nel 6 Nazioni.

L’anno dopo le azzurre vincono la prima contro la Scozia a Mira per 31-10 nell’ultima. Nel 2010 i risultati utili diventano due: un pari interno contro la Scozia e la prima vittoria esterna della storia italiana nel torneo, a Bridgend contro il Galles per 19 a 15. Lo score azzurro migliorò ulteriormente nel 2011 con due vittorie, poi replicato nel 2014, e migliorato nel 2015 con addirittura tre vittorie. Fino ad arrivare all’exploit dello scorso anno, col secondo posto dietro alle imbattibili inglesi, dopo il pareggio contro il Galles e tre vittorie contro Scozia, Irlanda e Francia.

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C’è ancora tanto lavoro da fare, anche se i limiti dell’Italdonne non sono imputabile a giocatrici e staff tecnico. Nonostante il disinteresse diffuso dei media nazionali ed il gap con le altre federazioni in termini di investimenti, la regolarità dei raduni e i test match internazionali, le più di 8mila tesserate fanno ben sperare. E i risultati sembrano pagare: la squadra del CT Andrea Di Giandomenico è tosta.

«Sono Manuela, orgogliosa trentenne, operaia e rugbista. Lavoro dal lunedì al venerdì, dalle 7.30 alle 17.30. Mi alleno in campo il martedì, mercoledì e venerdì. La domenica gioco». La capitana Manuela Furlan è il caposaldo della nostra nazionale, insieme a Sara Barattin e al talento di Michela Sillari all’ala e di Giordana Duca in mischia. L’obbiettivo è quello di ripetersi, centrando il podio.

Manuela Furlan © Pinterest Italrugby

Esiste ancora una scuola italiana, il nostro movimento rugbistico è tutt’altro che morto: lo sorreggono gli azzurrini e le azzurre.