All’indomani dello scampato pericolo (o della mancata impresa, dipende dai punti di vista) in Emilia-Romagna, la politica italiana si riscopre – per la gioia degli editorialisti – ancorata a un bipolarismo che si credeva morto e sepolto da almeno sette anni. Attenzione, però, perché se da una parte le elezioni amministrative non sono mai state il terreno di caccia preferito dai pentastellati, dall’altra finché non si torna a votare per le politiche i “padroni” del Parlamento – per quanto acciaccati, litigiosi e pur sempre minoritari possano essere – restano loro. Non proprio un dettaglio da poco, questo, considerato che, in assenza di nuove chiamate alle urne di qui a due anni, saranno gli attuali occupanti di Montecitorio e Palazzo Madama a pronunciarsi su un nome che fa gola a molti, quello del successore di Sergio Mattarella. Che proprio oggi celebra i primi cinque anni da inquilino del colle più alto.

3 febbraio 2015, cerimonia d’insediamento di Sergio Mattarella al Quirinale [© Fabio Cimaglia – LaPresseRoma]

Decisamente più incline alla moral suasion che agli interventi a gamba tesa cui ci aveva abituato l’inedito novennato del suo predecessore, il 78enne palermitano ha tenuto fede all’impegno di «arbitro della politica», come s’era definito nel febbraio del 2015 al momento dell’insediamento. Cinque anni trascorsi senza gli scossoni epocali che si era trovato a fronteggiare Giorgio Napolitano ma comunque difficili, caratterizzati da ondate di populismo quando non da vere e proprie tempeste sovraniste. Un quinquennio in cui Mattarella ha dovuto perfino affrontare, proprio da parte della prima forza parlamentare, minacce di non meglio precisato impeachment, rientrate alla stessa velocità con cui erano state scagliate. Motivo dello scontro il no alla nomina di Paolo Savona a ministro dell’Economia del governo “giallo-verde”, scelta giudicata dal Colle pericolosa per la tutela dei risparmi degli italiani.

Tre i presidenti del Consiglio con cui s’è trovato ad avere a che fare (con la speranza, non troppo velata, di non dover aggiornare l’elenco) e un solo senatore a vita nominato: l’attivista milanese Liliana Segre, superstite del campo di concentramento di Auschwitz scelta due anni fa «per aver illustrato la Patria con altissimi meriti nel campo sociale». Da sempre più incline all’interlocuzione riservata con l’esecutivo che ad atti traumatici come la mancata apposizione della firma presidenziale a disegni di legge e decreti, Mattarella si è già trovato in due occasioni a scongiurare un ritorno anticipato alle urne: la prima all’indomani della vittoria nel “no” al referendum costituzionale del 2016, quando Matteo Renzi, pur sconfitto, avrebbe voluto passare all’incasso; la seconda la scorsa estate, dopo gli ormai tragicomicamente noti fatti del Papeete. Allora era l’altro Matteo a volere le urne.

Prima e quarta carica dello Stato a colloquio lo scorso luglio al Quirinale [© Ansa]

Ironia della sorte, uno dei motivi di tanta fretta riguardava (e riguarda tuttora) proprio il Colle. Perché se la Lega, da sola o alla guida di una coalizione di centrodestra, fosse riuscita dopo l’estate a ripetere il clamoroso exploit ottenuto alle europee di maggio avrebbe potuto contare molto probabilmente su una nutrita delegazione parlamentare, decisiva a quel punto per nominare il tredicesimo capo dello Stato. Stesso ragionamento che ha senz’altro dominato – senza farne troppo mistero – i pensieri dell’ex premier Renzi e del garante 5 stelle Beppe Grillo, i veri autori dell’operazione Conte-bis. Se per il M5s l’unica speranza di poter avere voce in capitolo sul Quirinale che sarà è far sì che la legislatura prosegua, per Renzi – allora ancora senatore del Pd ma con già in mente una nuova creatura – si trattava dell’ultima chance utile per mettere i bastoni tra le ruote al suo scomodo omonimo leghista.

Perché, nonostante circolino da ieri voci astruse su un ipotetico accordo Conte-Zingaretti-Bonafede in vista di un bis di Mattarella, l’attuale Presidente non pare affatto intenzionato – anche per rispetto della prassi istituzionale – a ripercorrere le orme del predecessore. E quindi le manovre per arrivare pronti al gennaio 2022, quando toccherà riempire quella casella, sono già iniziate. Il centrodestra, benché abbia trascorso al governo dieci degli ultimi venticinque anni, non è mai riuscito a esprimere un Presidente della Repubblica. Dalla candidatura di Ciampi avanzata da D’Alema nel 1999 a quella di Napolitano sostenuta dall’Unione sette anni dopo, fino al “tradimento” nel 2015 del patto del Nazareno, a Berlusconi il tempismo ha sempre giocato brutti scherzi e Salvini, che del Cavaliere ha raccolto se non l’eredità politica almeno quella elettorale, non vuole fare la stessa fine.

La storica rielezione di Napolitano nell’aprile del 2013. Meno di due anni dopo si dimetterà [© Ansa]

Se il totonomi per il Quirinale a pochi giorni dal voto delle Camere lascia il tempo che trova, figurarsi quando alla fatidica data mancano due anni. Interessante però constatare come su alcuni candidature, pur in assenza di una conferma da parte degli interessati, sembrano convergere già da ora le forze politiche più insospettabili: è il caso dell’ex governatore della Banca centrale europea Mario Draghi che qualche mese fa ha ricevuto un tanto generico quanto inatteso endorsement proprio dal segretario della Lega Salvini. Più che sui nomi, però, avrebbe senso ragionare sulle dinamiche interne al Parlamento. Un Parlamento che – come non perdono occasione di ricordare Salvini e Meloni – non rispecchia più gli equilibri politici del Paese ma che non per questo vede venir meno la propria legittimità istituzionale. La data di scadenza recita 2023. Se verrà anticipata, le cause andranno cercate al Colle.