«Quando senti che la tua cultura è accelerata eccessivamente, c’è un’inclinazione a voler andare contro quella marea» (Peter Hutton)

Peter Hutton, Three Landscapes (2003).

Entrati negli anni ’20, se dovessimo fare un bilancio della soglia di attenzione che siamo capaci di mantenere davanti a un film o a un semplice video, potremmo scoprire, senza grandi sorprese, che è calata clamorosamente (alcuni studi arrivano a dire che abbiamo la soglia di attenzione di un pesce rosso, ma forse è meglio non pensarci troppo). Il bombardamento di immagini a cui ci sottoponiamo, volontariamente o meno, mette in effetti in seria difficoltà la nostra capacità di concentrarci su qualcosa per un periodo prolungato di tempo. Di fatto, l’esigenza sempre più forte di contenuti rapidi e in diversi casi usa-e-getta, porta a un disinvestimento del e nei confronti del contenuto. La tendenza è quella di voler sempre più informazioni, a una velocità sempre maggiore, privilegiando la rapidità a svantaggio della profondità. E se il problema può riguardare in particolare la fruizione di contenuti video che facciamo quotidianamente, una parte di questa modalità rischiamo di portarla inconsapevolmente anche davanti alla visione di un film; ma se il pericolo per noi è inconsapevole, per chi i film li produce la consapevolezza è molto chiara. Il cinema, quantomeno quello commerciale, ha intercettato questo calo e ha accelerato i ritmi. Ma un cinema fatto solo di azione-reazione non può permetterci di soffermare la nostra attenzione su altre “zone” dell’immagine, spaziali e temporali, che chiedono al contrario una contemplazione e un reale ingresso nel quadro.

Aleksandr Sokurov, Madre e figlio (1997).

C’è però un cinema che, citando le parole a inizio articolo di Peter Hutton, vuole andare contro questa marea: un’onda lenta, che parte da lontano (i suoi germi si possono già ritrovare in autori come Antonioni) e che nello scorso decennio ha trovato una sua sostanziale definizione: lo Slow Cinema. Lo “Slow Cinema Debate”, nato nel 2010 dagli articoli di Nick James e Jonathan Romney sulle pagine della rivista «Sight and Sound», ha posto l’attenzione su questa specifica contro-tendenza del cinema contemporaneo, che a partire dagli anni 2000 ha sentito l’esigenza di rallentare in risposta alla progressiva accelerazione delle immagini; un’esigenza che, secondo Romney, è anche del pubblico (Romney parla in realtà di “cinefili”, e anche se stiamo parlando di una tendenza del cinema d’autore, trovo la distinzione a priori tra vari tipi di pubblico limitante).

Michelangelo Antonioni, L’eclisse (1962)

Ma nel dettaglio quali sono le caratteristiche specifiche dello Slow Cinema e della “Aesthetic of Slow”? Lo Slow Cinema è caratterizzato da tempi lunghi e contemplativi e una maggiore attenzione verso la temporalità e una qualità evocativa dell’immagine a scapito degli eventi; è un cinema più sensoriale che narrativo, quantomeno nella definizione canonica del termine, intendendo per narrazione il susseguirsi di azioni tra loro legate e il progressivo incedere della trama, scandito dai classici tre atti. Ha una predilezione per le inquadrature fisse e il suo simbolo distintivo, a livello di linguaggio, è il piano-sequenza: un espediente che permette di non interrompere il flusso temporale come avviene solitamente staccando l’inquadratura (si pensi banalmente al campo-controcampo in un dialogo) durante le scene. È un cinema che si avventura all’interno dell’immagine e non stacca quando un’azione è apparentemente conclusa: convive con i tempi morti, e di fatto è così che definiamo i momenti in cui non sembra accadere nulla, quando in realtà a livello sotterraneo c’è sempre un movimento, di natura diversa. È infine un cinema che orienta lo sguardo verso i dettagli che popolano la scena, che si mostrano proprio grazie alla staticità del quadro e alla dilatazione del tempo dell’inquadratura.

Abbas Kiarostami, Il sapore della ciliegia (1997)
Immagine via Kiarostami.org

Questo nuovo ciclo di articoli, che si interseca con la rubrica “La realtà senza filtri” (nei suoi risvolti documentaristici) offrirà dunque una panoramica dell’“Aesthetic of Slow” su cui molti autori si sono interrogati, ponendosi in netto contrasto col cinema frenetico hollywoodiano. Non potendo definire lo Slow Cinema come un’effettiva corrente, ma più come uno spirito di approccio all’immagine filmica, verranno presi in considerazione quelli che possono essere considerati i possibili “padri” di questo tono contemplativo, sia in ambito cinematografico (come il già citato Antonioni, ma anche registi più vicini a noi come Angelopoulos, Kiarostami e Béla Tarr) che in campo documentaristico (la rarefazione estrema di Peter Hutton, o i provocatori anti-film di Andy Warhol). Tutto ciò senza dimenticare la corrente italiana (a proposito, si è già parlato in un articolo del cinema di Michelangelo Frammartino). Infine, verrà analizzato il panorama contemporaneo, e considerata l’“estetica della lentezza” sposata dalle nuove generazioni di cineasti, che mai come in altri periodi storici hanno aderito a un’evoluzione del linguaggio filmico che predilige lo spazio e il tempo dell’attesa.

Tsai Ming-liang, Goodbye, Dragon Inn (2003)
Immagine via quinlan.it

Se il tempo rallenta, si amplifica la percezione. E chissà che dalla sala, si esca allora con uno spirito diverso.