Cedant arma togae
Le armi si ritirino davanti alla toga
Cicerone, De consulatu suo, 60 a.C.

Scappano dalla distruzione e dalla guerra, dopo marce estenuanti si accalcano ai confini, ammassati in campi inospitali attendono di passare. Ma l’inefficienza del sistema d’accoglienza mette a nudo la crisi del mondo in cui dovrebbero essere accolti.

Nel 378 dopo Cristo, migliaia di “profughi” Goti mettono in ginocchio l’Impero romano.

La battaglia di Adrianopoli è per gli storici dell’antichità il punto di non ritorno delle invasioni barbariche, un contraccolpo che innesca l’avvio del crollo dell’Impero romano d’Occidente. Una convenzione che però sembra sensata: i postumi dello scontro, avvenuto in Tracia il 9 agosto 378, hanno definitivamente cambiato le modalità in cui l’Impero romano si è relazionato con le popolazioni alle sue frontiere. Un mondo prospero, organizzato, progredito da un punto di vista culturale, non è riuscito a far fronte all’avvento dei barbari alle sue frontiere, di cui per secoli si era servito assorbendoli nell’esercito e come coloni. Mancanza di visione d’insieme, di strumenti gestionali e di coordinazione, l’assenza di una strategia programmatica, hanno accelerato il declino della più stupefacente entità statale dell’antichità.

L’avvento dei Goti all’interno della frontiere balcanica dell’Impero romano d’Oriente – Storia in rete

«La Turchia non è nella posizione di fermare i migranti che vogliono recarsi in Europa». Così ha annunciato sabato scorso Mevlüt Çavuşoğlu, il ministro degli Esteri turco. Nel giro di poche ore è iniziato un esodo di massa di decine di migliaia di profughi, per lo più siriani ma non solo, che hanno cercato di attraversare le frontiere turche.

Edirne in Turchia, Kastanies in Grecia, Svilengrad in Bulgaria. Una striscia di terra di 120 chilometri di confine, limes nella lingua che 17 secoli fa amministrava la Tracia, la regione storica di Adrianopoli che dopo la prima guerra mondiale è diventata Edirne. Un numero incerto – 140mila secondo le fonti turche – di migranti cerca di superare le frontiere bulgare e greche per entrare in Europa. I poliziotti greci hanno respinto a suon di cariche e lacrimogeni migliaia di migranti. E ci sarebbe una prima vittima: un richiedente asilo siriano ucciso con un colpo di pistola dalle forze dell’ordine di Atene. Non va meglio sulle isole greche di fronte alla Turchia, che da venerdì ad oggi hanno visto lo sbarco di circa 300 migranti, soprattutto a Lesbo, Samos e Leros. Un bambino è morto durante un tentativo di sbarco a Mitilini. Si trovava a bordo di un barcone respinto da un’unità della Guardia costiera greca.

Ankara non li ferma, Atene li respinge violentemente o li arresta: così la crisi migratoria sulla rotta balcanica torna a preoccupare l’Europa. Non è in Tracia, non a Lesbo che sta morendo l’Europa.

Palazzo del Cremlino, Mosca, 8 aprile 2019, il meeting tra Vladimir Putin e Recep Erdogan – Alexei Nikolsky / AP

L’Europa è morta 2500 km ad est.

«Non credo che quello che stanno facendo Russia e Turchia porti ad una soluzione in Siria» afferma Alessandro Ginammi Albanese, esperto di relazioni Ue-Turchia dell’Università europea di Roma. Giovedì a Mosca, dopo 6 ore d’incontro, Vladimir Putin e Recep Erdogan hanno firmato un memorandum per un’intesa sulla gestione del conflitto siriano. Alla mezzanotte di giovedì, nella regione di Iblid, nord-est del paese, è scattato un cessate il fuoco, la fondamentale arteria M4 che collega la capitale Aleppo alla costa autostrada M4 sarà pattugliata congiuntamente da militari turchi e russi, come del resto accade lungo i confini dei territori che la Turchia ha occupato durante l’ultima operazione militare nel nord est siriano. «Attenzione a non confondere accordo con soluzione».

Le diplomazie di Turchia, Russia e Iran nel 2016 avevano avviato un processo di pace per la guerra civile siriana complementare a quello ufficiale di Ginevra, l’Astana Processus. Erdogan e Putin nel settembre 2018 si erano messi d’accordo per una spartizione temporanea di quell’area e per sospendere la guerra. A dicembre 2019 però l’offensiva di Assad appoggiata dalla Russia è ripartita con lo scopo di prendere Idlib e l’equilibrio turco-russo è saltato. Il 27 febbraio il Processus un raid aereo – ufficialmente dell’aviazione siriana, ma probabilmente russo – ha ucciso 36 militari turchi.

A distanza di una settimana, il caso sembra rientrato, coi due leader che si sono incontrati per avviare la fase della resa dei conti finale in Siria. «La situazione militare sembra avviarsi verso una conclusione, per quanto non immediata. Assad di fatto controlla il paese e lo “riunificherà” con tutto quello che comporta: il redde rationem tra il leader scampato alla guerra civile e i suoi oppositori sarà lungo e caotico. Il dossier siriano, specialmente nelle zone di confine con la Turchia è destinato a rimanere aperto, come i “corridoi” attraversati da profughi e migranti. La volontà di entrambe le potenze impegnate nella regione sembra quella di utilizzare la questione siriana come uno strumento politico, potenzialmente sfruttabile ad oltranza». La sensazione è che a una de-escalation militare fra stati non corrisponderà una soluzione pacifica della guerra civile siriana e della guerra civile del Medio oriente.

Un gommone di profughi cerca di raggiungere le coste greche – Getty Images

L’Europa è morta 2500 km ad ovest.

L’emergenza umanitaria dei profughi è un tragico corollario della polveriera siriana, che va avanti dal 2011 e non sembra ancora conoscere una conclusione. «Anzi siamo all’inizio di una nuova fase, nonostante la popolazione siriana sia al capolinea della sofferenza. La regola base che muove le relazioni internazionali – prosegue Albanese Ginammi – sono i rapporti di forza. Senza dietrologie o doppiogiochismi, Russia e Turchia non giocano a fingere di essere amiche o nemiche, sono reciprocamente in tensione, non si fidano ma semplicemente non possono scatenare una guerra aperta. In un momento di vuoto di potere nella regione – con l’intoppo politico israeliano ma soprattutto il ritiro auto imposto americano dalla regione – Assad, Erdogan e Putin cercano di tutelare gli interessi della propria potenza con gradiente di aspirazioni nazionali, regionali e globali». Ognuno fa il proprio gioco, per quanto rischioso possa essere.

L’unica entità che non sembra in grado di far valere i propri interessi strategici è l’Europa. Di fronte alla crisi dei migranti figli della guerra civile siriana l’Ue ha risposto mettendo la polvere sotto il tappeto, in tempo di COVID19, è rimasta a distanza lavandosene le mani.
Ha firmato un accordo nel 2016 col premier turco per chiudere le frontiere: ha dato ad Erdogan 3 miliardi per confinare 3,7 milioni di profughi siriani al di fuori delle frontiere comunitarie. Ora, grazie a un uso della “bomba dei migranti” tanto strumentale quanto logico da un punto di vista del realismo delle relazioni internazionali, Erdogan tornerà a «minacciare la riapertura delle frontiere, in cambio della riapertura dei rubinetti europei».

La tangente che l’Europa paga al Sultano non è frutto della mancata comprensione dell’origine dell’emergenza. Molto peggio: è chiaro che l’ondata migratoria è originata dal caos siriano, ma è altrettanto solare come l’Europa non sia in grado di intervenire concretamente e, quindi, preferisce sbarazzarsi del problema pagando e di fatto subendo passivamente gli strascichi di un conflitto decennale. «L’Ue ha dato 3 miliardi, senza poi pensare di mettersi in una posizione di forza non ricattabile, un assist clamoroso per la Russia di colmare il vuoto di potere nella regione e per la Turchia di prelevare dal “bancomat” europeo». Manca del tutto una forza deterrente militare, dovrebbero quindi farsi sentire i vincoli del soft power, il potere togato dettato dalla capacità dissuasiva di una politica estera, in grado di cooperare senza però essere succube delle potenze globali, ma anche semplicemente regionali come la Turchia. L’Europa non ha un esercito, non ha un ministro degli Esteri, una condivisione di obbiettivi, una linea politica chiara. Non ha una politica interna comune e di conseguenza neanche una estera, mancano un ministro degli Interni e degli Esteri dell’Unione.

L’Impero romano d’Oriente sopravvisse alla disfatta del 378 la bellezza di più di un millennio, fino al 1453; la sua sfortunata metà occidentale ancora quasi un secolo, fino al 476. Pensare che la costruzione europea possa preservarsi intatta anche solo per un’altra generazione inizia a sembrare utopia.

L’Europa è morta.