Nota dell’autore: il gioco è stato giocato in inglese per questo articolo, ma è disponibile anche in italiano.
L’articolo discute i temi del gioco, non la trama; non ci saranno menzioni al di là dell’inizio della storia.

Nell’America di Sam Porter non si vede mai il sole. Fitte coltri di nuvole coprono ogni angolo del cielo, gli imballaggi sulle spalle di questo fattorino postmoderno scricchiolano e cigolano, e ogni cadavere rischia di trasformarsi in una bomba atomica se lasciato a sé stesso senza attenzioni. È un gioco strano, questo Death Stranding.

È assolutamente impossibile parlare di Death Stranding senza prima parlare della persona il cui nome spicca sulla custodia, davanti al titolo, in ogni testo collegato al gioco e svariate volte nei titoli di testa. Hideo Kojima, designer leggendario che ci ha portato Policenauts e il gigantesco Metal Gear con tutti i suoi episodi, è figura mistica dell’industria videoludica– uomo dalla fantasia tanto scatenata quanto dalla penna inarrestabile, pronto a infondere pagine e pagine di filosofia, libri di storia, codici militari e qualunque contaminazione gli passi per la testa in complessi quadri narrativi.

E dopo aver passato (quasi letteralmente) una vita a mischiare il fantastico e il militare, Death Stranding è qualcosa di estremamente diverso: un gioco sulla solitudine e l’esplorazione, con le meccaniche di combattimento ridotte al minimo. Un gioco sull’essere un rider in un mondo post apocalittico. Un gioco interamente sul camminare.

A differenza di Outer Wilds, qui l’esplorazione non è al servizio della conoscenza. Non è neanche al servizio dello spettacolo: l’America di Death Stranding è un paesaggio vuoto e desolato, una brughiera senza alberi, un’Islanda brulla e coperta di muschio ed erba che non ricorda minimamente l’aspetto degli Stati Uniti, nonostante le variazioni occasionali. Tutto ciò è chiaramente intenzione base del game design: Kojima adora creare un senso di straniamento nel giocatore giustapponendo nazioni e luoghi inesistenti al loro interno, come ricorda la giungla tropicale russa (!) di Metal Gear Solid 3: Snake Eater.
In questo recente caso, una bellezza malinconica e solitaria, più riflessiva che stupefacente.

Kojima è famoso per dei giochi-pentolone, nei quali trovare la lista completa degli ingredienti spesso si rivela impresa ardua, ma in Death Stranding almeno una componente è chiara: l’obiettivo è prendere concetti della modernità ancora non completamente “capiti” e metabolizzarli nel linguaggio del gioco. Sam (interpretato da Norman Reedus in una spettacolare motion capture) è come un rider, con tanto di pacchi sovradimensionati sulle spalle e (più avanti) una moto elettrica ad aiutarlo nelle consegne. Le persone sono completamente isolate (tra le varie medicine che Sam deve trasportare sono presenti stimolanti a base di ossitocina, usati per “alleviare i sintomi provenienti dalla mancanza di contatto interpersonale e di affetto per altre persone”), comunicando solo tramite ologrammi ed email piene di Emoji, o lasciando mi piace a chi fornisce strutture utili.

Sam è collegato a un bambino in un utero artificiale, in grado di aiutarlo a visualizzare gli strani spettri che si aggirano per il mondo e costringono l’umanità a nascondersi in rifugi isolati. Lo stile di Kojima è un gusto acquisito.

Vengono fatte menzioni a intelligenze artificiali che hanno ridotto quasi a zero i posti di lavoro disponibili, a gruppi di ribelli ossessionati con il rubare pacchi a chiunque passi per la loro strada, e a come la sensazione di isolamento sociale abbia creato nuovi problemi psicologici; tutto ciò in un gioco uscito poco prima che il Covid ci costringesse quasi a viverlo. La capacità di Kojima di predire il futuro ha quasi del sovrannaturale – Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty (2001) conteneva una riflessione sul flusso di informazioni online, e su come chi fosse in grado di controllarlo sarebbe stato in grado di controllare intere nazioni. Che lo stile di Kojima non sia per tutti è innegabile, ma quando ci prende, ci prende da fare accapponare la pelle.

“Make America Whole Again” è un mantra ripetuto solo a volte in maniera esplicita, ma sempre presente. C’è un certo livello di satira politica, nel gioco – il governo degli Stati Uniti che incarica Sam della sua missione sembra quasi una lancia puntata al centro-centrosinistra americano: la loro fissazione per gli ideali di unità e libertà è completamente distaccata dalla situazione attuale, lavorando in base a idee e schemi (come il patriottismo) che informano il loro stesso modo di pensare ma che chiaramente non hanno più senso per le persone come Sam. Il presidente donna che incontriamo in apertura è un parallelismo con Hillary Clinton, allora? Impossibile leggere nella mente di Kojima, ovvio, ma in ogni caso Sam pare essere rassegnato a seguirla nonostante le sue rimostranze.

È difficile non pensare ai discorsi di un certo segmento politico americano, e su quanto “beh, ci hanno rubato le elezioni e hanno chiuso i seggi in molti quartieri, ma se la prossima volta votiamo più forte allora vinceremo” risulti un concetto disconnesso dalla realtà, eppure moltissima gente continua a seguirlo anche se completamente disillusa (e si, Kojima è giapponese, ma la grande maggioranza del suo lavoro è americanissimo). È anche impossibile non fare parallelismi con i ragazzi di UberEats, Foodora, Deliveroo e tutto il mondo dei rider sottopagati e figli della gig economy, dove il posto fisso è parte di un mondo ormai scomparso, mentre chi ha il potere continua a ragionare come se le cose fossero ferme a quando era giovane.

La missione di Sam non è solo riconnettere il paese, ma riconnettersi a un passato dimenticato e abbandonato, riconnettersi a tutte le risorse, ricerche e informazioni della storia dell’umanità (“riconnettersi a Internet” non è detto in maniera esplicita, ma il suggerimento è evidente). Il paradosso di un mondo interconnesso ma sempre più atomizzato è evidente, ma non scade nel facilone come in altri media che lo analizzano.

Questo elemento sembra ricevere un commento critico tramite l’uso del sistema multiplayer: girando per l’America Sam non incontrerà mai altri giocatori (e raramente altri esseri umani), ma potrà usare strutture e attrezzi lasciati da altri, condividere risorse, recuperare pacchi perduti di altri giocatori e in generale notare le tracce del passaggio di altre persone. Queste strutture possono ricevere “mi piace” come un social network: ricevi abbastanza di questi e l’umore di Sam migliorerà, e con esso le sue capacità fisiche. Generatori, ponti, scale a pioli ci permetteranno di oltrepassare molti ostacoli per le nostre consegne; per aiutare l’individuo è necessario lo sforzo della comunità più vicina ad esso, sembra essere la tesi, non bastioni di un potere vago e centralizzato, dalla dubbia efficacia pratica.

Svicolare attorno a degli “spettri” o risolvere situazioni di combattimento non sono elementi principali del gameplay. Ci sono opzioni per affrontare queste situazioni, ma la maggior parte dell’attenzione è riservata al camminare e ai vari modi per scalare pareti o guadare fiumi.

Death Stranding ti fa sudare ogni metro, e non solo per le consegne in sè: è un gioco quasi ostile al giocatore – parte dall’idea della fetch quest, il concetto delle missioni basate sul “prendi questo oggetto e portalo a questa persona” odiato dai giocatori, per costruirvi un intero gioco – tanto nel gameplay che nella trama. È difficile prendere sul serio personaggi come Die Hardman, o tutte le “Kojimate” che escono dalla sua penna mischiando “assurdismo” fantastico con problemi estremamente moderni.

Death Stranding dunque non è un gioco per tutti. Ma per poter approcciarsi a un lavoro creativo bisogna accettare la sua intenzione, e la sua intenzione è di farci portare pacchi e oggetti da un luogo all’altro di una mappa. È noioso, ripetitivo e frustrante? A volte. Il combattimento (quelle poche volte che succede) è limitato e con poche opzioni? Sì. Ma renderlo più “divertente” annacquerebbe il significato dell’esperienza, che non è facile da metabolizzare e su cui c’è stato, e ci sarà, molto da scrivere.