Al termine della stagione 2017/2018 l’orologio al Volkparkstadion sciorinava le seguenti cifre: 54 (anni), 261 (giorni), 0 (ore), 36 (minuti) e 2 (secondi). Tale era il tempo trascorso dalla nascita della Bundesliga tedesca a cui l’Hamburger Sport-Verein, abbreviato spesso in HSV, aveva, fino a quel momento, sempre partecipato. Il curriculum vitae di qualsiasi altra squadra tedesca, anche l’onnipotente Bayern München, è macchiato dalla partecipazione ad almeno un campionato cadetto.


Era già qualche stagione che l’Amburgo flirtava assiduamente e pericolosamente con la zona retrocessione, riuscendosi a salvare per il rotto della cuffia e/o per qualche miracolo calcistico. Nel 2015, per esempio, tutto sembrava apparecchiato per la prima retrocessione del club più antico di Germania, fondato addirittura nel 1887. Al 91′ minuto dello spareggio playoff-playout contro il Karlsruhe (nel calcio tedesco la terza classificata della Zweite sfida la terzultima classificata della Bundes) i tifosi amburghesi, ormai rassegnati, attendevano il triplice fischio che li avrebbe condannati alla prima retrocessione. Invece, in modo totalmente rocambolesco, l’Amburgo pareggiò con una punizione di Diaz (al primo gol stagionale) e, nei supplementari, ribaltò il risultato, grazie a una rete di uno dei tanti Müller del calcio tedesco.

Unabsteigbar. È come sempre molto difficile tradurre dal tedesco e, letteralmente, in italiano sarebbe irretrocedibili. Così amavano definirsi i tifosi del club, distante dalla possibilità di lottare per titoli nazionali o europei, come invece era solito avvenire in un glorioso passato. L’unico motivo d’orgoglio era riscontrabile in quel record, il non essere mai retrocessi, a differenza di tutte le altre “grandi” di Germania. Già nel 2014 la squadra della non-capitale più grande d’Europa giocò e vinse lo spareggio, mentre nel 2017 l’Amburgo si salvò solamente all’ultima giornata, nell’ennesima sfida thriller (risolta al minuto 88′ da tale Waldschmidt, entrato solamente due minuti prima) contro il Wolfsburg. Con il senno di poi, si può senz’altro affermare che la retrocessione era solamente una questione di tempo. Già, il tempo. L’Amburgo degli anni ’10 è stato un acrobata sprezzante del pericolo, sempre in precario equilibrio tra il fallimento annunciato e una salvezza insperata. L’orologio, nel frattempo, continuava a scorrere inesorabile, fino al 12 maggio 2018 quando arrivò il verdetto definitivo: tempo scaduto, l’anno prossimo si gioca in Zweite.

Tempo scaduto.

Smaltita (si fa per dire) la delusione per la retrocessione, la dirigenza del club ebbe un’idea: ai posteri la sentenza se definirla brillante o meno. Non potendo più, per ovvi motivi, indicare il tempo di permanenza in Bundesliga, le lancette dell’orologio vennero riportate indietro di oltre un secolo, facendo cominciare il conteggio nel 1887, anno della fondazione del club. Non essendo più Unasteigbar, almeno i tifosi avrebbero potuto ricordare alla Germania intera di essere i primatisti in longevità assoluta, senza soffermarsi sull’effettiva e concreta partecipazione alla prima divisione. Soddisfazione apparente, di facciata, poiché nel calcio, semplicemente, conta il presente. Ed essere il club tedesco più antico ha di per sé poco valore, specialmente se, tifosi e giocatori, sono costretti a vagare per i campi di provincia, distanti da Monaco, Dortmund, Gelsenchirken e, soprattutto, dall’arcinemica Brema.

La contestazione dei tifosi il giorno della retrocessione.

L’annata 2018/2019, la prima in Zweite, si è conclusa malamente. La dirigenza ha allestito una squadra per raggiungere la promozione diretta, che l’Amburgo ha mancato all’ultima giornata, gettando via malamente parecchi punti. Chi scrive era al Volkparkstadion in un gelido lunedì di fine novembre, quando l’Amburgo conduceva agevolmente 2-0 nei confronti dell’Union Berlin. I tifosi della capitale (circa tremila, in seconda divisione, di lunedì sera) non smisero nemmeno un secondo di cantare e fecero volare litri di birra al minuto 93, quando colsero un insperato pareggio. Quel gol a fine anno sarebbe pesato come un macigno, poiché l’Union arrivò un punto davanti all’Amburgo qualificandosi in Bundesliga per la prima volta nella sua storia.

La sciarpata dei tifosi dell’Unione, quel giorno.

Analizzando la stagione appena conclusasi, i punti che hanno separato l’Amburgo dalla promozione diretta in Bundesliga sono stati quattro. L’Arminia Bielefeld ha dominato il campionato cadetto, mentre lo Stoccarda (altra nobile decaduta che esattamente tredici anni fa festeggiava con fiumi di birra un insperato scudetto) si è accontentata del secondo posto. Terzo si è piazzato l’Heidenheim, sconfitto dal Werder Brema nella sfida spareggio. Per i tifosi dell’HSV non c’è stato neanche il sollievo di poter tornare a sfidare i verdi di Brema, senz’altro il derby regionale più caldo e acceso di Germania. Ma a proposito di derby, il colpevole dei punti persi dall’Amburgo durante l’annata è uno soltanto. Qualora andaste nella città anseatica per fare un sondaggio tra gli appassionati di calcio il risultato sarebbe quasi plebiscitario: tutti, o quasi, tifano HSV. Invece al di fuori di Amburgo, in Germania, in Europa e nel mondo, la seconda squadra della città vanta innumerevoli sostenitori. Si tratta del Futßall Club St. Pauli, nato nel 1910 e fino agli anni ’80 una delle tante e ingloriose squadre tedesche. In quel decennio, però, avvenne la grande svolta. La dirigenza decise di spostare lo stadio dalla zona del porto a Reeperbahn, la via di Amburgo (sempre all’interno del quartiere St. Pauli) celebre per la vita notturna e i locali a luci rosse. Il club in poco tempo passò dall’avere poco più di un migliaio di spettatori a quasi ventimila. La Reeperbahn nacque in passato con la finalità di allietare i marinai appena sbarcati nel porto della città, autentico snodo commerciale fondamentale nella storia del nostro continente. Il St. Pauli diventa presto un fenomeno cult (o kult,in tedesco) nonostante, sul campo, i risultati continuino sempre ad essere modesti.

La curva a St. Pauli.

Non a caso, quest’anno, il St. Pauli ha rischiato a lungo di fare la fine della Dynamo Dresden, retrocessa addirittura in terza divisione, i cui tifosi, per ideologia politica, rappresentano un mondo inconciliabile con l’universo del St. Pauli. Eppure, nonostante una stagione travagliata, la tifoseria che utilizza come simbolo il Jolly Rotten piratesco è riuscita nell’impresa di sconfiggere i rivali cittadini due volte, in casa e al Volkparkstadion. Sei punti conquistati con merito, necessari per la salvezza del club e, anche e soprattutto, fondamentali nell’interporsi tra l’Amburgo e il ritorno nella massima serie tedesca.

I tifosi dell’Amburgo stanno vivendo un incubo da ormai tre stagioni. I ricordi di un glorioso passato cozzano con il tragicomico momento che sta attraversando il club nell’ultimo periodo. I meno giovani amano ricordare in particolare l’annata 1982-83 quando il club si confermò campione di Germania (spolier: ultimo titolo nazionale) e arrivò fino ad Atene per giocare la finale di Coppa di Campioni. Di fronte c’era probabilmente la squadra più forte d’Europa, quella Juventus formata dall’ossatura della nazionale azzurra campione del mondo e da due stranieri, nientemeno che Boniek e Platini. Un tiro da trenta metri di Felix Magath sorprese Dino Zoff, all’ultima recita con la maglia bianconera, all’inizio del primo tempo. I restanti 80 minuti di gioco ricalcarono la falsariga di quell’Italia – Germania 4-3, ma a parti invertite, con gli italiani ad attaccare a testa bassa e i tedeschi a difendersi strenuamente. Il 25 maggio 1983, sotto il cielo ateniese, fu Horst Hrubesch, capitano amburghese, a sollevare la prima e unica Coppa di Campioni della storia del club.

Per i tifosi juventini, considerati gli scontati pronostici della vigilia, fu la finale più tremenda.

Quasi quarant’anni fa l’Amburgo, per inorgoglire i propri tifosi, non aveva bisogno di rimarcare di essere il club più antico di Germania. Né quello mai retrocesso. Era semplicemente il più forte d’Europa.