Francesco Guccini e Giorgio Gaber sono due pilastri nell’universo cantautoriale italiano.
Chitarristi ed eccelsi parolieri, per tutta la carriera hanno mostrato una sorprendente capacità nella lettura critica della realtà che li circonda, filtrandola attraverso la loro personale visione.
 
Guccini è un artista della parola, le sue canzoni hanno tutte le caratteristiche di vere e proprie poesie.
Gaber è stato inimitabile nel saper convogliare musica e teatro in un’unica espressione artistica: il teatro canzone.
L’uno si è sempre dichiarato agnostico, l’altro non ha mai nascosto di essere ateo.

Eppure Dio trova spazio in due loro opere.

Dio è morto

Nel 1967 Guccini sta muovendo i primi passi nel mondo della musica, collabora come autore e musicista con i Nomadi e gli Equipe 84 e ha già scritto alcune canzoni di successo.
Sono anni di fermento: siamo alla vigilia del Sessantotto, data che rappresenterà una svolta culturale e sociale, in Italia e non solo. Il giovane artista modenese è in cerca di una strada che gli permetta di far convergere il suo talento musicale con l’impegno sociale.

Il movimento culturale del ’68 e uno dei suoi molti slogan. Immagine tratta da parmareport.it

Viene invitato da Caterina Caselli a partecipare a una puntata di Diamoci del tu, programma televisivo di successo; a presentarlo c’è proprio Giorgio Gaber.

Un irriconoscibile Francesco Guccini canta in Rai la canzone “Auschwitz”, uno dei suoi più grandi successi


In quello stesso anno Guccini affida ai Nomadi e alla stessa Caterina Caselli il testo di una canzone che ha scritto due anni prima e che ne consacrerà la fama: Dio è morto.

Nel titolo si coglie un importante riferimento culturale: la massima di Friedrich Nietzsche che proclama la morte di Dio come metafora della capitolazione di tutto un insieme di valori propri del mondo occidentale.

Il brano si apre con un colpo secco di plettro che scandisce un accordo di re maggiore cui segue uno sviluppo musicale segnato da un ritmo incalzante e un testo che, nel suo incipit riporta un altro riferimento letterario: L’urlo di Allen Ginsberg.
Dio è morto rappresenta uno schiaffo al noioso e stagnante pensiero comune abbarbicato ai vetusti valori tradizionali: è un autentico inno generazionale. È arrivato il tempo di una nuova cultura, fatta di gente impegnata socialmente e dotata di un pensiero critico nei confronti di un mondo borghese che non li rappresenta più.

«Perché è venuto ormai il momento di negare/ Tutto ciò che è falsità, le fedi fatte di abitudine e paura/ Una politica che è solo far carriera/ Il perbenismo interessato, la dignità fatta di vuoto/ L’ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto».

La canzone dura appena due minuti e mezzo, non mancando di lasciare spazio, nella sua conclusione, a un messaggio di speranza nelle nuove leve della gioventù sessantottina.
Guccini è pienamente convinto che “questa sua generazione” sia preparata a prendere in mano le redini del suo futuro per condurre l’umanità verso un nuovo roseo orizzonte di riscatto nei confronti dell’ipocrisia di un modello occidentale che, nel secolo breve, sembra aver toccato il suo momento più basso.

«Perché noi tutti ormai sappiamo/ che se Dio muore è per tre giorni e poi risorge/ In ciò che noi crediamo Dio è risorto/ in ciò che noi vogliamo Dio è risorto/ Nel mondo che faremo Dio è risorto…»

Chi non si dimostra pronta ad un testo del genere è mamma Rai, che censurerà per blasfemia il testo del cantautore. E dire che in un primo momento la canzone viene trasmessa da Radio Vaticana; Papa Paolo VI dimostra infatti di apprezzarla particolarmente.

Un giovane Francesco Guccini con in braccio la sua chitarra. Immagine tratta da liosite.com

Io se fossi Dio

Più di dieci anni dopo, nel 1980 il panorama è decisamente cambiato.
Attentati e stragi sono all’ordine del giorno e una gigantesca tormenta di foschi nuvoloni neri e rossi fa cadere come pioggia proiettili di piombo che bagnano di sangue la nostra penisola. Nel 1978 le Brigate Rosse hanno addirittura rapito e ucciso il leader della Democrazia Cristiana, l’onorevole Aldo Moro. Il 2 agosto 1980, una bomba alla stazione di Bologna miete come una falce ottantacinque vittime, lasciando ovunque macerie e più di duecento feriti.

Foto della stazione di Bologna appena dopo lo scoppio della bomba. Immagine tratta da ladigacivile.eu

Giorgio Gaber, non più un ragazzino, è nel pieno della sua maturazione artistica.
Da ormai dieci anni ha deciso di abbandonare una facile carriera da cantante di successo per dedicarsi a un genere da lui stesso inventato: il teatro canzone. Dal palcoscenico, il Signor G riesce con più facilità a spaziare su diversi temi e proporre la sua personalissima visione critica nei confronti di ciò che lo circonda.

Un anno prima, nel 1979 l’artista milanese è in tour con un nuovo spettacolo: Polli d’allevamento. Il suo rifiuto nei confronti del comodo ideale comune si abbatte su tutta quella nuova generazione in cui Guccini aveva riposto la sua piena fiducia.
Nella canzone più famosa dell’album, Quando è moda è moda – spesso tra lanci di oggetti e buu da parte del pubblico – Gaber sottolinea l’esaurirsi di quella spinta propulsiva che aveva caratterizzato il movimento giovanile del Sessantotto, a cui lui stesso aveva aderito entusiasticamente:

«Io mi ricordo la mia meraviglia e forse l’allegria/ Di guardare a quei pochi che rifiutavano tutto/ Mi ricordo certi atteggiamenti e certe facce giuste/ Che si univano come un’ondata che rifiuta e che resiste/.
Ora il mondo è pieno di queste facce/ Ne è veramente troppo pieno/ E questo scambio di opinioni, di barbe di baffi e di kimoni/ Non fa più male a nessuno
».

È in questo clima di totale ridefinizione della sua arte che nel 1980 Giorgio Gaber esce allo scoperto con un brano di oltre quattordici minuti: Io se fossi Dio.
Una canzone dai toni cupi, dove il basso scandisce un ritmo lento e un’atmosfera grave.
Uno sfogo totale nei confronti di una società ostentatamente politicizzata, ma in realtà priva di valori e che comunica ormai soltanto attraverso frasi fatte e luoghi comuni.
Si può scorgere un riferimento artistico al noto sonetto di Cecco Angiolieri S’i‘ fosse foco.
La critica è feroce e non risparmia nessuno: dal piccolo borghese al benpensante, dai giornalisti alla politica e non manca la dura condanna nei confronti delle Brigate Rosse: «Mi hanno tolto il gusto di essere incazzato personalmente». Quello di Gaber ha tutte le caratteristiche del Dio biblico, tremendo e spaventoso: «Dio è violento e gli schiaffi di Dio appiccicano al muro tutti».

Il brano è caratterizzato da un crescendo di rabbia che monta piano piano, di verso in verso, e al culmine di questo sdegno Gaber arriva a pronunciare una frase che farà molto discutere:

«Io se fossi Dio, quel Dio di cui ho bisogno come di un miraggio/ C’avrei ancora il coraggio di continuare a dire che Aldo Moro/ Insieme a tutta la Democrazia Cristiana/ È il responsabile maggiore di trent’anni di cancrena italiana».

Non vi è nessun finale ottimistico, nessuno spiraglio di speranza: tutti, Dio compreso, di fronte a siffatta mancanza di valori e pochezza della realtà dovrebbero ritirarsi in campagna, smettere di interessarsi a ciò che li circonda. Anche il testo di Gaber subirà la censura per ovvie ragioni: il brano sarà fatto circolare in maniera indipendente dallo stesso artista.

Gaber in scena durante un suo spettacolo. Immagine tratta da tpi.it

In momenti storici diversi, queste due canzoni hanno saputo cogliere le caratteristiche del periodo nelle quali venivano scritte.
In entrambi i testi Dio – riferimento universale e senza tempo – è lo strumento di una dirompente critica sociale che tanto manca al panorama artistico contemporaneo.
Ancora oggi Gaber e Guccini sono fonte di ispirazione e le loro canzoni vengono ascoltate ed amate…

Grazie a Dio.

«Mi piaceva molto parlare con lui. Quando suonava a Bologna finivamo regolarmente all’Osteria da Vito. L’unico rimpianto è non avergli detto che non ero d’accordo quando, nel 2001 cantava La mia generazione ha perso.»
(F. Guccini di G. Gaber)

«Bolognesi, ricordatevi: Sting è molto bravo però tenetevi il vostro Guccini. Uno che è riuscito a scrivere 13 strofe su una locomotiva può scrivere davvero di tutto.»
(G. Gaber di F. Guccini)