All models are wrong, but some are useful
George Box

Nel 2008, Obama vinse in Ohio con il 51,5% dei voti. Nel 2012, vinse nuovamente con il 50,7%. Nel 2016, tuttavia, in Ohio, la maggioranza dei voti è andata a favore di Donald Trump, che ottenne il 51,3% delle preferenze. Una storia simile è avvenuta anche in West Virginia, Illinois, Michigan, Pennsylvania e Indiana.

Questi stati hanno un elemento in comune: fanno tutti parte della Rust Belt, il territorio nell’America nord-occidentale che, da cuore dell’industria pesante statunitense (la cosiddetta Steel Belt), ha progressivamente attraversato un declino economico fino a diventare, appunto, Rusty (arrugginita).

Le origini risalgono a prima del 2008: nei dieci anni ante Crisi, in Ohio erano già spariti oltre 10.000 posti di lavoro. La Grande Recessione ha soltanto dato il colpo mortale al territorio, che si è spopolato (Cleveland passa da 478.403 abitanti nel 2000 a 388.072 nel 2015) e impoverito.

Cos’è successo alla Steel Belt? La letteratura economica ha avanzato diverse ipotesi: mancanza di innovazione del settore, scarsa flessibilità del mercato del lavoro (spiegazione che gli economisti liberali danno a più o meno qualsiasi problema), bassa produttività.

Alle sofisticatezze economiche si aggiunge un motivo molto più semplice: sono arrivati i cinesi.

Produzione globale di acciaio in milioni di tonnellate. Fra il 2007 e il 2016 la produzione cinese aumenta del 65%, quella del resto del Mondo diminuisce del 5%. La produzione statunitense diminuisce del 20%.

Come spiegato dal modello di Heckscher-Ohlin, il commercio internazionale incentiva i Paesi a specializzarsi nei prodotti relativamente intensi nei fattori di produzione relativamente più abbondanti, per esportarli, ed importare gli altri beni. La Cina ha un vantaggio competitivo in questo: sono relativamente più dotati del fattore lavoro rispetto agli Stati Uniti, e quindi sono incentivati a specializzarsi nella produzione di beni labour intensive.

Il modello, inoltre, aggiunge che questo equilibrio non è neutrale, ma ha dei vincitori e dei vinti. I vincitori sono i detentori del fattore di produzione relativamente più abbondante, i vinti gli altri.

Negli Stati Uniti i vinti sono stati i detentori del fattore lavoro. Volendo essere più precisi, si può raffinare il modello e considerare un’ulteriore sfumatura: il “fattore lavoro” non è un monolite, ma può essere differenziato  in “lavoro qualificato” e “lavoro non qualificato”. Questa precisazione identifica con più precisione i vinti: i lavoratori non qualificati e la classe media dei Paesi relativamente abbondanti di capitale (cioè i cosiddetti “Paesi sviluppati”: Europa occidentale, Stati Uniti, Giappone…).

Cosa vuol dire essere vinto? Vuol dire essere più povero: il reddito mediano della classe media statunitense è sceso dai 77.898 dollari del 1999 ai 72.919 del 2014.

All’impoverita classe media americana è stato dato un facile capro espiatorio. Ecco spiegato (almeno parzialmente) Trump, ed ecco spiegati i dazi introdotti su alluminio e acciaio. I dazi, almeno in teoria, rendono più costose le importazioni, e dovrebbero quindi dare un po’ di vantaggio all’industria nazionale.

Certo, accusare “il commercio” così a grandi linee di tutti i mali delle società occidentali è un pensiero un po’ superficiale. Il commercio genera benefici per larghe parti della popolazione (perché se non potessimo importare smartphone, ad esempio, non staresti leggendo questo articolo su una cosa che costa 300€ ma su una cosa che ne costerebbe il triplo, ammesso e non concesso che un’impresa italiana sia in grado di svilupparlo e produrlo). Tuttavia, esso distorce il mercato del lavoro, creando le fratture di cui l’Ohio è solo uno di innumerevoli casi. Non esiste quindi una risposta univoca alla domanda “il commercio internazionale è positivo?” e alla sua controparte “i dazi sono una cosa giusta?”. Pensando ad un paese sviluppato (e quindi capital intensive) in linea teorica il commercio internazionale permette di acquistare beni a prezzi inferiori – di nuovo, pensate al vostro smartphone – e questo è un bene. Di contro, riduce relativamente i salari, soprattutto quelli dei lavoratori meno specializzati.

Alla prova della realtà il modello, inoltre, si scontra con un’ipotesi piuttosto forte. Assume, infatti, la possibilità di spostare a piacere i fattori di produzione – ovvero di poter allocare i lavoratori nelle produzioni più efficienti. Tuttavia, risulta chiaro che un metalmeccanico non è necessariamente capace di costruire computer. Se non si producono più auto, il metalmeccanico difficilmente potrà riciclarsi nella manifattura di computer. La specializzazione produttiva non è quindi indolore: scegliere di importare dei beni, rinunciare alla loro produzione, provoca la chiusura di fabbriche e la perdita di posti di lavoro.

Questo porta alla necessità della compensazione dei vinti. La compensazione può assumere diverse forme, non necessariamente monetarie. Ad esempio, una forma di compensazione molto efficiente (e pressoché assente in Italia: riguarda solo il 25% della popolazione over 24) riguarda la formazione post-universitaria: un metalmeccanico non sarà in grado di costruire un computer, ma se adeguatamente formato potrà imparare a farlo, e “stare al passo” con la trasformazione del tessuto produttivo.

Dimenticare i vinti e pensare che il commercio sia neutrale provoca una frattura sociale che, come abbiamo avuto modo di vedere in quasi tutti i Paesi sviluppati, ha delle importanti conseguenze politiche.