Siamo abituati a pensare alla storia individuale sganciata da quella politica. E’ dura schiodarsi dai dualismi su cui si è ormai accomodato da secoli il buon vecchio pensiero occidentale: natura/cultura, corpo/mente, biologico/sociale, individuale/collettivo, biografico/politico, eccetera. Per interpretare i movimenti della nostra vita ricorriamo comunemente alle parole della psicologia o della psicanalisi, strumenti di riferimento nel discorso sull’individuo. Il sociologo francese Didier Eribon sceglie invece di interrogare il proprio vissuto di intellettuale, omosessuale, figlio di operai, attraverso le lenti della sociologia. Pubblicato in Francia nel 2009, Ritorno a Reims è la storia di una grande frattura, di uno sradicamento e di un ritorno a casa. “Il ritorno all’ambiente da cui si proviene – e dal quale si è usciti, in tutti i sensi del termine – è sempre un ritorno a sé, un ritrovarsi con un se stesso tanto più negato quanto più conservato. Affiora così alla coscienza tutto ciò da cui avremmo voluto crederci liberati, ma che sappiamo bene essere la struttura della nostra personalità”.

Cresciuto a Reims, cittadina del nord della Francia, Didier Eribon è stato il primo della sua famiglia a laurearsi. Sua madre, nata senza padre e cresciuta in un orfanotrofio, lasciò la scuola a quattordici anni, com’era comune a persone della sua generazione e della sua classe sociale, per cominciare una vita di lavoro e povertà: piegata dal lavoro in fabbrica, dalle gravidanze, dai lavori domestici e da un marito “stupido e violento”.  Anche il padre aveva cominciato a lavorare in fabbrica a quattordici anni, così come i fratelli, o almeno quelli che erano riusciti a non finire alcolizzati. “La fabbrica era lì per lui, e lui era lì per lei. Allo stesso modo aspettò i suoi fratelli e le sue sorelle che lì lo raggiunsero. Così come aspettava e aspetta sempre chi nasceva e nasce in famiglie socialmente uguali alla sua”. Eribon comincia da bambino una spontanea, istintiva resistenza al determinismo di quell’ambiente: non fa sport, non lavora in fabbrica (solo pochi mesi), non sa fare niente con le mani, non fa a botte. Si sottrae con sistematicità al percorso naturale tracciato per il maschio della classe operaia: sceglie la cultura contro i valori popolari virili. E’ omosessuale in un ambiente visceralmente omofobo. Si costruisce differenziandosi in ogni tratto, si reinventa in una rieducazione che passa per il disimparare ciò che era stato. Si trasferisce a Parigi, dove studia alla Sorbona e intraprende la carriera intellettuale. A parte qualche telefonata con la madre non avrà più contatti con la sua famiglia, non andrà nemmeno al funerale del padre.

Didier Eribon da bambino. Ph The Guardian

Dopo trent’anni ritorna a casa. Tra i colloqui con la madre, sfogliando le fotografie dell’infanzia, prende forma un pensiero che guiderà tutta la ricerca: aveva dichiarato apertamente la propria omosessualità, ne aveva scritto facendola diventare un punto di forza della sua attività intellettuale, ma non aveva mai scritto nulla sulla classe operaia. Aveva scritto della vergogna sessuale ma non aveva mai scritto della vergogna sociale: “Non esagero nel dire che il coming out sessuale, il desiderio di accettare e affermare la mia omosessualità, coincideva nel mio percorso con l’entrata in una sorta di nascondiglio sociale, nei vincoli imposti da un’altra forma di dissimulazione. Un altro tipo di personalità dissociata, con gli stessi meccanismi della vergogna sessuale: i sotterfugi per depistare, i pochissimi amici che sanno ma mantengono il segreto, i differenti registri del discorso a seconda delle situazioni, il costante controllo di sé per non lasciar trasparir nulla, per non tradirsi”. Aveva sempre pensato – e si era sempre raccontato – che il motivo della rottura radicale con la famiglia fosse l’omofobia del padre e dell’ambiente in cui era vissuto. Quello che invece si era sempre taciuto erano la vergogna e il disprezzo per la sua classe d’origine, il desiderio di cancellare le tracce della propria provenienza sociale. Emerge un rimosso enorme, che non è solo personale ma sociale, politico e culturale: è più facile parlare di omosessualità che di povertà. Politicamente era dalla parte degli operai, ma detestava che le sue radici fossero nel loro mondo.

Un capitolo è dedicato all’analisi della crisi della sinistra: come mai il voto popolare si era spostato verso la destra nazionalista? Quali erano state le responsabilità della sinistra? Negli anni Ottanta comincia un percorso di trasformazione, esploso poi negli anni Novanta, che vede i partiti di sinistra collocarsi su posizioni neoliberiste, avvicinandosi ai partiti di destra e dimenticando il proprio mandato fondativo: occuparsi delle oppressioni e degli antagonismi sociali. L’idea di dominazione, di un’opposizione strutturale tra dominati e dominanti sono scomparse dal lessico politico della sinistra. La sinistra non ha cancellato l’esclusione e le diseguaglianze sociali, ha cancellato le parole per indicarle. La destra populista è invece riuscita a costruire un discorso in grado di restituire alle classi dominate il senso della propria esclusione, spostando l’asse noi/loro dal piano sociale a quello etnico.

Ritorno a Reims, regia Thomas Ostermeier Ph. Masiar Pasquali

In Francia e Germania Ritorno a Reims ha suscitato dibattiti e polemiche, in Italia è passato quasi inosservato. Quella parte del libro che elenca le responsabilità della sinistra rispetto all’avanzata della destra populista è stata spunto per un ambizioso progetto teatrale del regista tedesco Thomas Ostermeier. Direttore artistico della Schaubühne di Berlino e tra le personalità teatrali più influenti del panorama internazionale, Ostermeier ha realizzato un format: per ogni nazione europea dove è stato allestito lo spettacolo (Regno Unito, Francia, Germania e Italia) è stato scelto un cast diverso e la drammaturgia è stata adattata alla situazione politica locale. In Italia lo spettacolo ha debuttato lo scorso ottobre, co-prodotto dal RomaEuropa Festival e dal Piccolo Teatro di Milano.

Tutto accade in uno studio di registrazione: un regista (Rosario Lisma) sta lavorando a un documentario indipendente su Ritorno a Reims. Un’attrice (Sonia Bergamasco) deve registrare la voce narrante, in studio è presente anche il tecnico del suono (Tommy Kuti, rapper afro-italiano). La prima parte dello spettacolo, la più interessante, è incentrata sulla biografia di Eribon: vediamo in video il suo ritorno a casa, la madre, loro due in cucina che guardano le foto di famiglia, i luoghi della sua infanzia. A un certo punto l’attrice ferma la registrazione, ha delle incertezze sulle scelte del testo. Il regista del documentario decide allora di cambiare taglio narrativo: scompare la storia di Eribon, restano le sue parole sull’avanzata delle destre e sulle responsabilità della sinistra, le immagini del video mostrano volti di politici e manifestazioni. Tommy, tecnico del suono/rapper bresciano di colore, chiude lo spettacolo: finché ad andare in televisione saranno loro, i bianchi, i privilegiati, non cambierà niente. “Dobbiamo prenderci la parola, raccontarci da soli”.

Ritorno a Reims, regia Thomas Ostermeier Ph. Masiar Pasquali

Paradossalmente, la centralità che nello spettacolo prende la critica alla sinistra, necessaria ma ormai datata (son passati dieci anni da quando Eribon ha pubblicato) elimina la dimensione politica più profonda: come le strutture di potere si incarnano nelle vite e nei corpi delle persone.  La testimonianza di Eribon è precisa, tagliente, disturbante; lo spettacolo di Ostermeier resta generico e quindi innocuo, finisce per compiacere il pubblico radical chic, la faccia buona della borghesia, progressista a parole, elitaria nei fatti. Il bravo Rosario Lisma coinvolge il pubblico, scende in platea per far dire alle persone che Berlusconi non è cattivo, sotto lo sguardo di una scandalizzata Sonia Bergamasco. Ma di fronte alla violenza di cui parla Eribon, totale, fisica, strutturale, ha davvero senso parlare di buoni e cattivi? Il memoir di Eribon è necessario perché destruttura i meccanismi attraverso la sua storia personale. Analizza la vergogna come strumento di dominazione sociale, parla dell’odio per suo padre e della sua incapacità di andare al di là di ciò che il padre rappresentava, mostra la brutalità dei meccanismi di esclusione dall’istruzione e dal lavoro messi in atto dalla borghesia, classe alla quale ora Eribon stesso appartiene. Il gesto più politico è quindi il più intimo: la confessione, l’esposizione, la condivisione della vergogna non per esorcizzarla ma per mostrare come agisce.

Rosario Lisma riesce a emozionarci con semplicità quando ci mostra il video di un suo comizio anti-Salvini a Mazara del Vallo, sua città natale (fatto realmente accaduto, visibile su youtube https://youtu.be/wxj-0oGmh8g). Ed è vero, bisogna fare quel che si può. Quello che non convince è che questo spettacolo, che nella finzione scenica è un documentario indipendente quindi low cost, è realizzato da una delle più prestigiose e ricche istituzioni del teatro italiano. Non si può chiedere alle istituzioni culturali o agli intellettuali di risolvere la questione politica, si può chiedere però onestà e presa di responsabilità del proprio ruolo. Proprio perché siamo a teatro le domande, se ce le facciamo, dobbiamo farcele davvero; se si sceglie, utilizzando il video per raccontare un primo piano o mantenendo i nomi degli interpreti, di rinunciare alla protezione di un personaggio, è fondamentale essere, anche solo un minuto, sinceri. Il volto di Sonia Bergamasco di fronte alla domanda “Che fare? Tu, ad esempio, Sonia, che fai?” è il ritratto della poca consistenza della sinistra intellettuale incapace di trovare nuove parole e nuove azioni, ma soprattutto dell’ostinazione con cui si difende il privilegio. Senza messa in gioco in prima persona l’interrogativo è solo formale e le risposte non trovate (non cercate) sono un modo per lasciare che tutto resti come è.

Didier Eribon – ISOLDE OHLBAUM/LAIF/CAMERA PRESS

Quando Ostermeier chiese ad Eribon di essere presente nel film documentario che sarebbe stato proiettato durante lo spettacolo ha acconsentito. Non voleva però far vedere sua madre e la sua casa. Non poteva immaginare sua madre su uno schermo. Non voleva che nessuno la vedesse.  E’ stato il suo compagno a dirgli: Sei riuscito a superare la vergogna sessuale, e non sei in grado di superare quella di classe?
Il corpo della madre “bloccato dai dolori legati alla durezza del lavoro eseguito per anni in piedi davanti a una catena di montaggio” che Eribon si vergognava a mostrare è l’immagine di “cosa significa concretamente, fisicamente l’ineguaglianza sociale, la violenza nuda dello sfruttamento. Il corpo di un operaio quando invecchia mostra a ogni sguardo che cos’è la verità dell’esistenza delle classi.”

Non si può essere politici senza essere profondamente, intimamente, scomodamente personali.