Bisognerebbe descrivere il corso di questo strano processo che a volte si compie in un attimo, come una scossa, come una purificazione. L’uomo si sbarazza della paura, si sente libero. Senza questo processo, la rivoluzione non avverrebbe.
Ryszard Kapuscinski, Shah-in-shah

«Sono seduti, chiusi nell’angolo retto formato da due tavoli di formica bruna, con alle spalle un muro cieco. […] Lei indossa un cappotto chiaro con un fazzoletto da contadina, lui un soprabito scuro e una sciarpa, e ha posato la šapka di montone rivoltato sul tavolo che ha davanti. Sembrano una coppia di pensionati. […] Non si vedono gli uomini seduti o in piedi di fronte a loro, non si vede il volto dell’uomo fuori campo che con voce rabbiosa e monocorde accusa quei due vecchietti di aver vissuto nel lusso sfrenato, fatto morire di fame dei bambini, compiuto un genocidio a Timișoara. Dopo ogni raffica di accuse, l’invisibile pubblico ministero l’invita a rispondere, e l’uomo, senza smettere di tormentare la šapka, risponde che lui non riconosce alcuna legittimità a quel tribunale. A tratti la moglie si infervora, comincia a discutere, e allora per calmarla l’uomo appoggia la propria mano sulla sua, con un gesto familiare, commovente. […] Ellissi. L’inquadratura successiva mostra i loro corpi insanguinati sul selciato di una strada o un cortile, non si sa dove».

Nicolae Ceausescu e sua moglie Elena nel corso del processo, il 25 dicembre 1989 a Targoviște – Pigi Cipelli/Corriere

Prima di iniziare il racconto delle peregrinazioni nella polveriera dei Balcani del suo eroe-canaglia Limonov – ovviamente al fianco dei serbi – Emmanuel Carrère spende un capitolo della biografia romanzata sul Natale di sangue romeno del 1989, un cambio di regime violento all’interno di una più ampia rivoluzione incruenta. Che ha fatto da appendice al conflitto più duraturo e sanguinoso del Dopoguerra europeo.

Si stava chiudendo un anno magico. Il 1989 era iniziato con una serie di sommovimenti non violenti che i contemporanei – con rarissime eccezioni, tra cui la madre dello romanziere, Hélène Carrère d’Encausse, specialista di storia russa all’Académie française che nel 1978 aveva annunciato “la fine dell’URSS” nel suo libro The Broken Empire – non colsero. Quell’anno era stato sancito dall’avvento al potere di umanisti sull’onda di rivoluzioni non violente, come Václav Havel; i giovani tedeschi dell’Ovest si era potuti abbracciare con i coetanei dell’Est dopo che il muro che per trent’anni li aveva separati a Berlino era crollato; due milioni di persone avevano formato una catena umana di 600 km tenendosi per mano da Tallinn a Vilnius, passando per Riga, le capitali delle tre Repubbliche Baltiche che per prime si sfilarono le catene di 70 anni di dominio sovietico.

L’ultimo anno del decennio avrebbe dovuto essere magico anche per Nicolae Ceaușescu. La sua Steaua Bucarest, la squadra dell’esercito, era tornata in finale di Coppa dei Campioni, dovendo arrendersi solo al Milan di Sacchi e dei tre olandesi. Una soddisfazione non certo paragonabile a quella di tre anni prima, con la stella rossoblu sul tetto d’Europa, l’unico club del Patto di Varsavia a riuscirci. Il 7 maggio 1986 al Sánchez-Pizjuán è la notte dell’Eroul de la Sevilla. Helmuth Duckadam para tutti e 4 i calci di rigore, tre alla sua destra e uno a sinistra, le sue mani quella notte sono stregate per i catalani del Barcellona. Proprio quelle mani che pochi mesi dopo sono colpite da trombosi, un male sospetto per alcuni che insinuano sia una vendetta di Valentin, il figlio di Ceaușescu, che avrebbe ordinato alla Securitate (la polizia segreta del regime) di spezzare le mani al portiere. E’ nato in Transilvania, regione di per se sospetta perché al confine con l’Ungheria, non che Duckadam si fosse mai presentato come oppositore politico del regime, ma rimaneva uno di cui sospettare, e poi si sarebbe rifiutato di cedere al figlio del leader la motocicletta che il Real Madrid gli avrebbe regalato dopo aver sconfitto gli odiati catalani in finale.

I rigori della finale del 1986 tra Barcellona e Steaua Bucarest

Paranoie da propaganda dell’imperialismo capitalista: la famiglia Ceaușescu è “amica del popolo”. Da 24 anni Nicolae e la sua Elena guidano saldamente il paese interpretando i “dettami autentici” della rivoluzione che da più di settant’anni illumina il mondo, e mai come in quel 1989 la fedeltà alla linea dura sembra pagare. Quel Gorbačëv, che lo soprannominava “il fuhrer rumeno”, iniziava ad affondare nelle sabbie mobili in cui si era infilato con le sue stesse “accelerazioni”. Parole come glásnost e perestroika non avevano mai piegato il duro Nicolae. No, il Conducător si definiva un “comunista alla vecchia maniera”. Si professava ancora stalinista, 33 anni dopo il XX Congresso del Pcus del 1956 che aveva sancito la destalinizzazione, condannando il leader della Grande guerra patriottica alla damnatio memoriae. Una guerra che ai romeni non piace troppo ricordare. Un conflitto iniziato con l’invasione – a margine del patto Ribbentrop-Molotov – di Bucovinia e Bessarabia da parte dell’Urss, che ha portato all’abdicazione del re e alla dittatura del generale Antonescu che entra in guerra al fianco dell’Asse, con tutti gli annessi e connessi; e concluso con un ribaltamento di fronte: nel 1944 il figlio del re depone il generale per allearsi coi russi, una marcia trionfale fino a Berlino che costa 168mila perdite e 50 anni sotto il giogo sovietico.

Seconda guerra mondiale per Nicolae vuol dire insegnamento, con il corso di aggiornamento che riceve nel campo di concentramento di Târgu Jiu, da Gheorghe Gheorghiu-Dej, il suo mentore che diventerà capo dello Stato. Nicolae, il figlio di contadini che nel 1929 dal piccolo villaggio di Scornicești si trasferisce a Bucarest per diventare calzolaio, nel 1932 entra nel Partito comunista, che allora era illegale. Nel 1944 diventa segretario dell’Unione della Gioventù Comunista. Tre anni dopo con un colpo di Stato l’Urss abbatte la monarchia e rende la Romania un paese satellite, guidato da Petru Groza, a cui nel 1961 succederà proprio il maestro Gheorghiu-Dej. Ceaușescu è un bravo allievo, che svolge il cursus honorum all’interno della nomenklatura del partito. Diventa capo del Ministero dell’Agricoltura, poi vice ministro delle Forze Armate, nel 1954 entra nel Politburo. E’ ormai l’uomo più importante del partito e come naturale conseguenza nel 1965, alla morte di Dej gli succede come Segretario generale.

Ad una riunione del partito ha l’incontro della sua vita, in una riunione della sezione di Bucarest nel 1939 incontra una giovane operaia, anche lei figlia di contadini di provincia, Elena Petrescu. Nel 1946, conclusi i periodi di prigionia di Nicolae, diventerà la signora Ceaușescu, eminenza grigia con cui per quasi un quarto di secolo ha guidato il paese, una “satrapia duocratica” che fa della reinterpretazione personale dello stalinismo il faro della propria linea politica. La popolarità in patria della coppia è legata alla politica di rifiuto della sovranità limitata, una sfida alla supremazia dell’Unione Sovietica con la condanna dello sfruttamento di tipo neo-coloniale subito dalla Romania. A Bucarest vengono concesse libertà di manovra impensabili nel paese. Dal 1966 Ceaușescu non prende parte alle riunioni del Patto di Varsavia, e nel 1968 rifiuta di scendere in campo con il Blocco Orientale nell’invasione della Cecoslovacchia per schiacciare la primavera di Praga. La Romania è uno dei tre paesi, insieme a Cina e Jugoslavia, a partecipare alle Olimpiadi di Los Angeles 1984, noncurante del boicottaggio sovietico in risposta a quello occidentale di 4 anni prima contro l’invasione in Afghanistan.

Keystone/Getty Images

A questo “anticonformismo” in politica estera fa da contrappeso il rifiuto di ogni apertura liberale in politica interna. Ceaușescu contesta a Mosca la destalinizzazione. In patria da vita a una dittatura sul solco dettato da Gheorghiu-Dej. “Urbanizzazione” e “industrializzazione” sono le parole chiave del programma di sistematizzazione della Romania, avviato nel 1972. Una sorta di piano quinquennale perenne che mira a svuotare le campagne per dar vita “Società socialista sviluppata multilateralmente”, a partire dalla capitale Bucarest, dove fa erigere la seconda costruzione al mondo dopo il Pentagono, la Casa del Popolo – adesso sede del Parlamento. Nel 1966 il regime decretò la messa al bando di qualsiasi forma di contraccezione o aborto, migliaia di bambini vengono abbandonati negli orfanotrofi. Aumenta la popolazione e con essa la povertà in tutto il Paese.

Nel 1974 Nicolae si proclama Presidente della Romania. Dopo un viaggio nei paesi comunisti dell’estremo oriente, nel 1971 coglie lo spunto per le Tesi di luglio, un abbandono delle già precarie liberalizzazioni del decennio precedente e l’imposizione di una rigida ideologia nazionalista col ritorno al realismo socialista. Dalla Cina di Mao, dal Vietnam di Ho Chi Minh e soprattutto dalla Corea di Kim Il-sung importa il “culto della personalità”. Nicolae diventa il “genio dei Carpazi”, il figlio del contadino che voleva fare il calzolaio fa assegnare una sfilza di lauree honoris causa a sè stesso e alla moglie – vere o false che fossero poco importa. Il Proletkult – acronimo di Organizzazione Culturale-educativa Proletaria – lo osanna. Il Conducător sogna di vincere il Nobel e si diletta componendo poemi che compaiono in ogni manuale di letteratura.

Fateci trarre trattori dai cannoni,
dalle luci e sorgenti atomiche
dai missili nucleari
aratri per lavorare i campi.

Il dominio stalinista dei Ceaușescu viene esercitato su ogni aspetto della vita civile romena, religioso, educativo, commerciale. Apparentemente tutto è sotto controllo, nel paese regna l’ordine. Ma in profondità si avvertono i primi sommovimenti, scintille di un sconvolgimento imminente. Nel dicembre 1989 Nicolae ha 71 anni, è appena stato rieletto dal partito per altri 5 anni alla guida del paese che governa da 24, di cui 15 come presidente autoproclamato. A Timișoara scoppiano manifestazioni di protesta provocate dal tentativo del governo di espellere László Tőkés, un popolare sacerdote ungherese, accusato di incitare all’odio etnico. Il 17 dicembre esercito e Securitate sparano sui manifestanti, il 18 Nicolae parte per una visita di stato.

La storia sa ripetersi come farsa, soprattutto nei paesi che professano ideologie marxiste. Agli inizi del Novecento hanno iniziato a diffondersi studi, a cavallo tra psicologia e sociologia, sul comportamento delle masse. Il 1989 è un anno di straordinarie manifestazioni di piazza, alla base di quella che nel 1995 Samuel Huntington ha ribattezzato “terza ondata di democratizzazione“. Nicolae non può ancora saperlo, e decide di recarsi in visita di stato in Iran, un paese che festeggia i dieci anni della sua rivoluzione. Gli iraniani sono scesi in piazza per un anno e mezzo, a intervalli di 40 giorni.

«Tutti i libri su tutte le rivoluzioni iniziano con un capitolo dedicato alla corruzione del potere in declino o alla miseria e alle sofferenze del popolo. Dovrebbero invece cominciare con un capitolo di analisi psicologica dove si spieghi il processo per cui un uomo tormentato e impaurito vince improvvisamente i propri timori e smette di avere paura».
Nel suo Shah-in-shah, il reporter polacco Ryszard Kapuscinski racconta l’Iran a cavallo della rivoluzione. L’8 gennaio 1978 un quotidiano governativo finanziato dallo Scià di Persia, pubblicò un articolo contro l’ayatollah Khomeini, in esilio da 15 anni in Iraq. Quando il giornale arriva nella sua città natale, Qum, scocca la scintilla. La gente si riversa nelle piazza gridando “Allah akbar”. Polizia ed esercito sparano sulla folla che si disperde, per 40 giorni. Un’usanza antica vuole che in Persia il compianto per i morti duri 40 giorni, un rito comune, una cerimonia che si trasforma in comizio di protesta. Al quarantesimo giorno dopo i fatti di Qum, nelle moschee di molte città iraniane la gente si raduna per commemorare le vittime. Così la scintilla diventa una fiamma che divampa in rivoluzione. Il 16 gennaio 1979 le piazze costringono lo Scià a fuggire in esilio, rimpiazzato pochi giorni dopo dal ritorno di Khomeini.

Proteste del dicembre 1989 davanti all’Opera Nazionale di Timisoara – Amherst Glebe Arts Response, Inc., (AGAR)

La sfida della piazza ha travolto anche Ceaușescu. Tornato dall’Iran, trova un paese in fermento. A Timișoara la Securitate ha lasciato 111 morti per terra. Il 21 dicembre, dopo un discorso radiofonico in cui il dittatore ha parlato di “interferenze di forze straniere negli affari interni rumeni”, a Bucarest va in scena un raduno di massa in Piazza del Popolo, presentato dai canali ufficiali come “uno spontaneo movimento di supporto a Ceaușescu”.
La piazza oggi si chiama “della Rivoluzione” che è partita con un fischio. Mentre il dittatore sta parlando qualcuno “si sbarazza della paura, si sente libero” è inizia a fischiare. In pochi istanti il Conducător, con una tono di sconcerto sul volto, è travolto dai fischi e dai boati e deve rintanarsi nel palazzo con la moglie.

Nel paese divampano le proteste, con ogni probabilità guidate da esercito e Securitate che tradiscono il dittatore e si preparano a cambiare vesti nel corso della transizione del paese. Ceaușescu e la moglie Elena abbandonano in elicottero il palazzo presidenziale. Arrivano a Targoviște perché l’esercito ordina l’atterraggio e chiuso lo spazio aereo. Tentano la fuga ma vengono catturati e consegnati all’esercito. Il giorno di Natale muoiono fucilati davanti al plotone di esecuzione dopo 70 minuti di processo sommario.

Secondo l’Istituto di ricerca sui crimini del comunismo sono stati 300mila i morti durante la dittatura, 600mila i prigionieri politici, 13mila le condanne a morte, di cui 5mila sommarie. Dopo la caduta del regime sono stare trovate fosse comuni, anche se all’appello mancano più di 150mila persone scomparse. In quel giorno di Natale di 30 anni fa bastò molto meno per mandare al patibolo il Conducător. Molti sospetti per crimini del quasi quarto di secolo di dittatura del “genio dei Carpazi” ricadono anche sulla Securitate che tuttora conta quasi 10mila agenti in attività nei servizi segreti del paese.

Di fronte al plotone d’esecuzione, il tenete generale Ceaușescu dichiarò che la storia avrebbe dato un buon giudizio sul suo operato e cominciò a cantare L’Internazionale, mentre Elena gridò di “andare tutti all’inferno”.