Dopo tre mesi di quarantena a Milano, riparto. Abituata a vivere la mia vita avanti e indietro dall’Italia, questo stop forzato causato dalla pandemia è stata una bella sfida. Non perché fosse oggettivamente difficile stare in casa tranquilla, ma perché come operatrice umanitaria, la mia vita e i miei affetti sono sparsi in giro per il mondo e nutriti dai miei continui spostamenti. Tolti quelli, il mio equilibrio si rompe.

Questa immobilità forzata porta a riflettere su quanto privilegio ci sia nella nostre vite.
Quanto valore e potere nel nostro passaporto italiano ed europeo. Per la prima volta quel documento d’identità, finora una certezza di fronte alle frontiere di tutto il mondo, perde valore proprio in quanto italiano. Da un giorno all’altro è passato dall’essere il biglietto da visita del Bel Paese a quello di pericolosi untori. Perfino Haiti, il paese dove vivo e lavoro, emette una circolare che vieta l’ingresso ai cittadini italiani.
Il mondo al rovescio. 

Passport Index cura, ordina e classifica i passaporti del mondo. © The Passport Index

Le cerco tutte per poter ripartire. Credo di aver passato una settimana intera a cercare stratagemmi per trovare un modo di ripartire, di aggirare le misure di confinamento. Figlia del ricco occidente, sono sempre talmente stata abituata a non avere limiti nelle cose che posso fare che arrivo al punto di non saper accettare di dovere anch’io sottostare alle regole imposte dalla situazione di emergenza mondiale. Ritorno in me e mi vergogno del mio atteggiamento. Mi rendo conto della grande lezione che questa situazione mi sta dando. Calarmi per una volta direttamente nei panni di chi subisce da tutta la vita le ingiustizie di un passaporto discriminato. 

Ti sei mai chiesto quanto valga il tuo passaporto?
“Spostarsi liberamente in tutto il mondo è un privilegio di chi vive in occidente o ha i soldi per comprare la cittadinanza di un altro paese. Le barriere alla mobilità globale sono una delle grandi ingiustizie di oggi”, esordisce così un interessante articolo di Vik Sohonie pubblicato su Internazionale.

Mai come in questo periodo ci siamo resi conto dell’enorme importanza che la nostra società dà alla statualità e ai suoi strumenti. Lo stato è per me bene o male sempre stato un concetto amico. Mi ha sempre offerto dei buoni servizi sociali, una buona educazione, una buona sanità, dei diritti, la possibilità di viaggiare, addirittura il libero accesso a tutti i paesi europei: la domenica andavo a sciare in giornata in Svizzera! Sì, abbiamo perfino dei confini sotto forma di resort sciistico. A volte la vita è beffarda. Alcuni confini sono invalicabili se non hai il passaporto giusto. Ci sono muri per entrare in America, atroci sofferenze e migliaia di euro da pagare agli scafisti per chi scappa la guerra per raggiungere l’Europa, visti negati perfino nonostante le borse di studio solo perché cittadini di uno stato sbagliato. “Con un passaporto occidentale si è liberi di perseguire le proprie ambizioni, mentre per tutti gli altri il traguardo da ottenere è un passaporto occidentale”, continua Sohonie. 

Un gruppo di migranti centroamericani si arrampica sul recinto di confine tra Messico e Stati Uniti, vicino al valico di frontiera El Chaparral, a Tijuana, nello stato della Baja California, in Messico, il 25 novembre 2018. © PEDRO PARDO/AFP/Getty Images

Con questa rinforzata consapevolezza dei miei privilegi, passanti presenti e futuri, riparto. Dopo averlo tanto cercato, il momento arriva quando meno me lo aspetto: il famoso lasciapassare, un foglio che certifica che sono “operatrice medica impegnata nella risposta al COVID-19”. Il titolo fa sorridere, non mi sento di appartenere a questa categoria, anche se parzialmente è vera. Non sono medico, ma coordino una ONG medica svizzera, impegnata nel sostegno dello stato haitiano nella risposta al COVID-19. E’ arrivato il momento per me di ripartire e tornare ad Haiti. Prima però c’è un viaggio attraverso la Svizzera, dove ha sede l’organizzazione per cui lavoro, e la Francia da cui parte il volo umanitario che mi riporterà nello stato caraibico. 

Dopo tre mesi di immobilità e la vita sottosopra, la modalità in cui viaggio è l’apatia. Seguo ciò che il mio corpo dovrebbe fare, seguo ciò che fanno gli altri, che la società impone.E così, lasciandomi trasportare, salgo sul treno a Milano infestata dal virus e scendo a Berna, che sembra esserne immune. In Svizzera, soprattutto nei cantoni di lingue tedesca, la gente è rilassata, rarissime le persone con la mascherina, non si vedono nemmeno su mezzi pubblici o negli uffici. Scuole e negozi aperti. In poche ore abbandono ogni reticenza, ogni paura: gel igienizzante e distanziamento sociale sembrano ormai appartenenti al passato.

© Stadler Rail AG

Incontro così il “virus degli altri“, “dei cinesi che l’han creato”, “degli italiani che non hanno saputo gestirlo”, esorcizzare è la parola d’ordine. Forse una strategia politica per non allarmare la popolazione, forse attitudine. 

Osservo, annoto, proseguo. Da Lugano a Berna, da Berna a Ginevra. Stazione di Ginevra Cornavin, treno per Lione, la polizia francese mi ferma ai controlli: “Signorina a bordo c’è obbligo di mascherina e guanti”. Prendo tutto il necessario dalla valigia e salgo sul treno, improvvisamente terrorizzata dai miei tre giorni di vita svizzera. Ma come ho fatto ad essere così ingenua? Ma perché non mi sono protetta? E se avessi contratto il covid? Improvvisamente il virus riappare, di nuovo tra noi, di nuovo una minaccia. Le facce sorridenti e gli animi allegri degli svizzeri lasciano il posto a sguardi sospettosi, pronti a condannare l’untore nella ritrovata vecchia Europa. 

Tra un magret de canard e un croissant è tempo di salire sull’aereo che mi riporterà ad Haiti. Data l’estrema fragilità del paese in cui entreremo, in termini di capacità sanitarie e povertà, tutti noi passeggeri del volo siamo stati obbligati a presentare un test negativo all’esposizione al covid-19 e fornire un indirizzo dove passeremo il periodo di isolamento. Il virus si trasforma in responsabilità, verso un paese che non ha gli strumenti per combatterlo. La realtà al nostro arrivo è un po’ diversa, nessuno ci controlla, ci viene solo presa la temperatura, dato poco rilevante dato che come sappiamo potremmo essere asintomatici. Il documento di negatività al virus non ci viene richiesto, ci viene solo confiscato il passaporto per due settimane, periodo durante il quale dovremo rimanere in quarantena. Lasciato l’aeroporto, deserto, dato che le frontiere sono ancora ufficialmente chiuse, siamo liberi, nessun controllo.

Principale Aeroporto Haitiano, Toussaint Louverture. © Lenational.org

Quattro mesi che non tornavo in questo luogo. Quattro mesi che mi sentivo sbagliata, che non mi sentivo collocata nel giusto posto. Ed ecco che improvvisamente la mia apatia pian piano mi abbandona, i sensi si risvegliano.

Le vie di Haiti, normalmente caotiche e trafficate, piene di gente, tap-tap, macchine scassate disposte lungo interminabili code, sono adesso stranamente silenziose. La gente c’è, ma la sensazione è quella che qualcosa non vada. Passo tre giorni in un hotel 5 stelle, dalla quale finestra mi si apre una vista di km e km di bidonville, dove casupole minuscole senza servizi né elettricità ospitano 6-7 persone, mamme, zii, nonne, nipoti, figli. La sensazione che il mondo non sia un posto uguale per tutti è schiacciante, a volte soffocante. Ho bisogno di fare un po’ di spesa, chiamo così il mio autista di fiducia per portarmi un po’ di provviste.
“Tutto bene Louis?”
“Si si benissimo grazie, e tu?”
“Si si bene, ma senti e la tua famiglia come sta?”
“Tutti bene, grazie a dio. Solo che sai siamo 7 a casa, e fa molto caldo in questi giorni. Non abbiamo acqua né elettricità, lo stato non la fornisce da due settimane”. 

Jean Michelle (nella foto a destra) aiuta la figlia di sette anni, Fatdjoulie, a fare i compiti, mentre Catrine Telamoure, che vive con Michelle e i suoi tre figli, fa un pisolino. © Tariq Zaidi, 2018

Improvvisamente lo stesso virus con cui sono salita in Italia sul treno per la Svizzera, sparisce, diventa minuscolo. Queste parole mi riportano ad una realtà tangibile. Una realtà dove il Covid-19 è così piccolo se paragonato a quello che questa gente vive, subisce, sopporta: HIV, colera, malaria, mancanza d’acqua, di elettricità, di lavoro, di cibo, caldo soffocante. 

“Ma sai, per fortuna qui ad Haiti stiamo tutti bevendo il the allo zenzero, quello aiuta molto”.

Si conclude così questa mia folle settimana, accompagnata da un virus dalle mille forme, dalle mille identità, capace di rinchiudere in casa milioni di italiani per mesi, capace di trasformarsi in un gin tonic sui navigli solo qualche settimana dopo; di passare la frontiera e svanire tra i verdi prati svizzeri, diventando quasi una barzelletta divertente, per poi riapparire sotto forma di un’anatra francese con patate al forno mangiata in solitaria con mascherina sotto mento in funzione di tovagliolo e infine morire sulle coste caraibiche, schernito da problemi molto più grandi di lui ed un the allo zenzero, che “quello fa sempre bene”.

Alla fine il virus si è adattato al mondo che ha trovato.