Trent’anni fa iniziava “l’ultima guerra classica della storia”.
Così sul Wall Street Journal, Richard Haass ha definito la Prima Guerra del Golfo. Haass, all’epoca consigliere della presidenza americana, era nella stanza che forse avrebbe potuto scongiurare l’inevitabile.

Il pomeriggio del primo agosto 1990 a George Bush arriva un messaggio del consigliere per la sicurezza nazionale: Saddam Hussein sta per invadere il Kuwait. Tra i due paesi confinanti la situazione era tesa da settimane, truppe irachene era ammassate al confine del piccolo emirato. Messinscena o reale minaccia alla sicurezza dello scacchiere mediorientale, Bush senior decide che in ogni caso è giunto il momento di alzare la cornetta. Il presidente e i suoi consiglieri pensano che una telefonata al rais possa ancora interrompere la piega degli eventi.
Mentre dalla Casa Bianca cercano di prendere il contatto con Baghdad, arriva la notizia: le truppe irachene hanno invaso li Kuwait. Nel Golfo Persico sono le due di notte del due agosto 1990.

La mossa del rais ha due ragioni di fondo: la prima è una dimostrazione muscolare agli occhi degli Stati Uniti (in procinto di diventare l’unica potenza globale, ma allora non era ancora chiaro cosa stava accadendo oltre la cortina di ferro); la seconda rimanda alle rivendicazione di appartenenza del Kuwait alla comunità nazionale irachena, sulla scorta del comune passato ottomano e di una sostanziale identità etnica, malgrado l’Iraq avesse riconosciuto l’indipendenza del piccolo Emirato del golfo Persico quando questo era stato ammesso alla Lega araba.

Con una rapida operazione di due giorni la Guardia Repubblicana irachena prende il controllo del paese. Saddam proclama la Repubblica del Kuwait, celebrando un successo che avrebbe dovuto far dimenticare otto anni e il milione di morti nel conflitto con l’Iran. Quella che prima dell’invasione del Kuwait era noto come guerra del Golfo aveva avuto il suo cessate il fuoco il 20 luglio 1988.

Sebastião Salgado

L’invasione coglie quindi di sorpresa gli Stati Uniti, i paesi arabi provano a persuadere Saddam ad abbandonare il Kuwait, mentre le Nazioni Unite emanano una risoluzione dopo l’altra – saranno 12 in tutto – per chiedere il ritiro.
Bush decide di allestire una Coalizione – per questa volta non ribattezza dei volenterosi – che avrebbe richiesto sei mesi di preparazione. Intimorito per un possibile attacco, il principale alleato americano nella regione, re Fahd dell’Arabia Saudita chiede all’assemblea degli Ulema, la più alta autorità religiosa saudita, di emettere una fatwa in cui si autorizzava l’ingresso di truppe americane nel paese, con grande scandalo di un semi-sconosciuto rampollo di una ricca famiglia saudita, Osama Bin Laden. In pochi mesi mezzo milione di soldati a stelle e strisce si stanziano lungo il confine iracheno.

La notte tra il 16 e il 17 gennaio 1991 comincia l’Operazione Desert Storm, la prima “guerra in diretta TV”. Una coalizione di 35 stati, sotto l’egida Onu, dichiara guerra al quarto esercito del mondo. E’ l’ultimo scontro della Guerra Fredda, in un mondo che sta per diventare unipolare.

Nuove tecnologie, come ad esempio le telecomunicazioni satellitari, permettono ai giornalisti aggregati alle truppe americane di trasmettere in diretta le immagini degli aerei che decollavano dalle basi in Arabi Saudita diretti in Iraq. I giornalisti a Baghdad riprendono l’altro lato, mostrando le immagini del cielo di Baghdad solcato dai proiettili traccianti e illuminato dalle esplosioni. Tre giornalisti di CNN – Bernie Shaw, John Holliman, e Peter Arnett – rimangono a Baghdad per quasi tutta la guerra e le loro trasmissioni dalla città sotto attacco sono entrate nella storia del giornalismo.

Non solo giornalisti, anche fotografi famosi si fiondano in Medio oriente per testimoniare quella che è stata definita “la prima guerra del villaggio globale”. Come Sebastião Salgado, inviato per il New York Times Magazine, per immortalare uno dei più grandi disastri ecologici della storia, materiale che verrà poi ripreso in Il sale della terra, un documentario del 2014 di Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado. L’esercito di Saddam Hussein ha incendiato centinaia – 700, si è detto – di pozzi di petrolio nel deserto del Kuwait. Otto mesi dopo, alcuni pozzi bruciavano ancora.

Il momento epocale delle cinque settimane di della campagna aerea sui cieli del Kuwait viene raggiunto nella notte tra il 26 e il 27 febbraio 1991. Dopo aver bruciato il paese, in un’apocalisse nel deserto per aumentare il prezzo del petrolio, le truppe iracheni cominciano a ritirarsi lungo l’Autostrada 80, che da Kuwait City porta a Bassora. Lungo quello che venne ribattezzato Autostrada della morte, l’esercito di Saddam, il quarto del pianeta per numero di effettivi, viene polverizzato dall’alto.

Dopo aver fiaccato dal cielo la Guardia Repubblicana, il 24 febbraio la Coalizione comincia l’operazione di terra, che dura soltanto cento ore: il 28 febbraio Bush proclama un cessate il fuoco unilaterale. Dopo 42 giorni e 100mila morti iracheni, si concluse Desert Storm. Con poche centinaia di perdite, la sconfitta dell’Esercito iracheno e la “liberazione” del Kuwait, l’operazione è un successo totale per gli Stati Uniti. Bush decide di non avanzare oltre lasciando agli iracheni il compito di rimuovere Hussein.

È a questo punto che scoppia la sollevazione popolare nelle regioni sciite. A partire da Bassora, lo strategico porto sul Golfo e luogo di confluenza tra l’acqua salata del mare e quella dolce dell’Eufrate e del Tigri. Dall’inizio di marzo l’insurrezione risale il corso del fiume e le sue file si ingrossano di disertori dell’Esercito nazionale. In larga parte reclute e sottufficiali sciiti, ma anche esponenti sunniti e curdi del Partito comunista e di formazioni nazionaliste. Ma la rivolta ha vita breve: viene schiacciata da una convergenza di interessi locali, nazionali, regionali e internazionali. L’Esercito iracheno apre il fuoco servendosi di milizie tribali della zona di Baghdad (elemento locale); l’Aeronautica (livello nazionale) martella dal cielo gli insorti; questi ultimi non riceveranno mai alcun sostegno dagli Stati Uniti o dagli altri paesi, arabi e non, della coalizione anti-Saddam Hussein (livello internazionale e regionale).

Il regime di Hussein non collassa e sopravvisse per altri 12 anni, quando un secondo Bush invase di nuovo il paese causando una serie di eventi alle cui conseguenze assistiamo ancora oggi.
Trent’anni dopo quel conflitto, ci si interroga ancora su cosa sia l’Iraq: terreno di scontro tra Stati Uniti e Iran, paese messo in ginocchio dall’insurrezione dello Stato Islamico, diviso tra il Kurdistan autonomo – ma non indipendente – e un governo federale da più parti considerato a sovranità limitata, scosso da turbolenze interne soprattutto nelle regioni a maggioranza sciita.
Il paese continua a muoversi lungo il percorso segnato, anche ma non solo, dalla guerra scoppiata trent’anni fa.