C’era una Tappa” è la rubrica di The Pitch Olympia che racconta alcune delle leggendarie imprese compiute al Giro d’Italia che trascendono le due ruote. Perché la storia della Corsa Rosa s’intreccia a doppio filo con quella del nostro Paese.
In questa quarta puntata parliamo della Cuneo-Pinerolo 1949, della più grande fuga in solitaria della storia del ciclismo e del suo protagonista: Fausto Coppi.

Coppi è un’invenzione della natura per completare il modestissimo estro meccanico della bicicletta.
Gianni Brera, 27 luglio 1949

L’Italia del Secondo Dopoguerra è un paese falcidiato dalle bombe che hanno riempito le strade di macerie e le famiglie di lutti, e che cerca faticosamente di rialzarsi dalla miseria che il conflitto bellico ha lasciato in eredità. Dopo gli anni bui vissuti sotto il fascismo, nonostante le difficoltà economiche, la fame e la scarsità di lavoro, gli italiani tornano a gioire, a vivere e a riversarsi nelle strade per godersi la libertà ritrovata. Il simbolo di quell’Italia è la bicicletta: emblema di un paese non motorizzato ed in gran parte sottoproletario. È il mezzo di trasporto più diffuso e, per molti, anche l’unica occasione di farsi largo tra le case bombardate e la possibilità di ricostruirsi un futuro. Per molte famiglie è l’unica opportunità per muoversi e sperare di trovare lavoro. Come racconta meravigliosamente la pellicola di Vittorio De Sica, Ladri di biciclette. Il film, considerato unanimemente uno dei più grandi capolavori del neorealismo italiano, racconta la storia di Antonio Ricci, un disoccupato che finalmente trova impiego come attacchino di manifesti. Per lavorare, però, deve possedere una bicicletta. In un’Italia spezzata dalla povertà, minacciata dalla carestia e con un figlio da sfamare, Antonio ha impegnato la sua in un Monte di Pietà. L’occasione di risollevarsi e di guadagnare qualcosa è però troppo importante, così la moglie Maria è costretta a impegnare le lenzuola per poterla riscattare. Ma proprio durante il primo giorno, mentre incolla un manifesto cinematografico di Rita Hayworth, un ladro gli ruba la bicicletta, che Antonio cerca invano di recuperare per tutto il film. Nelle scene finali, ormai disperato e disposto a tutto per mantenere il lavoro, cerca a sua volta di rubarne una.

Ladri di biciclette“, 1948. La versione restaurata da Il cinema ritrovato al cinema.

Le vere protagoniste del film di De Sica sono la città di Roma e, proprio, la bicicletta. La Capitale, ripresa in bianco e nero, appare in tutta la sua magnificenza: le strade larghe e semivuote sono tremendamente lontane dalla motorizzazione che le colpirà nei decenni successivi. L’umanità che ci vive, invece, è rappresentata in tutte le sue sfaccettature sociali, ma condivide una partecipazione solidale ed un sentimento comune, scoprendosi aperta e disponibile proprio come le strade della città. L’altra protagonista, la bicicletta, attraversa tutto il racconto, apparendo e scomparendo ripetutamente. È il vitale elemento di sopravvivenza nel quale la famiglia di Antonio ripone le proprie speranze. Intorno al mezzo di trasporto ruota tutta l’esistenza di Ricci e, contemporaneamente, l’esistenza di un intero paese che sta cercando di rialzarsi dalla guerra.

Non solo simbolo di libertà ed emancipazione, quindi, ma anche e soprattutto regina dello sport che, insieme alla boxe, scalda il cuore degli italiani. È l’Italia che torna a vivere e che nuovamente si accalca ai lati delle strade per seguire ed incitare indistintamente gregari e campioni. Perché nelle difficoltà e nello sforzo della salita non c’è distinzione. Allo stesso modo, in sella ad una bicicletta, non c’è distinzione tra un borghese ed un contadino. Per questo la bicicletta è il mezzo di trasporto più democratico: perché nell’Italia del Dopoguerra tutti ne possiedono una e perché non fa favoritismi.

È un ciclismo poetico, ma anche epico: tutti si sentono partecipi della fatica e della gioia dei corridori. L’operaio che inforca la sua bicicletta per andare in fabbrica ed il garzone di bottega che la usa per portare la spesa pedalano sulle stesse strade dei loro idoli. E mentre pedalano si immaginano di scalare le Alpi, di vincere in volata o di indossare la Maglia Rosa. Così, mentre l’Italia cerca di ricominciare a correre, attraverso le due ruote, anche le catene delle bici del Giro possono ricominciare ad essere oliate a dovere. Su tutte, quelle di Gino Bartali e Fausto Coppi, che, ben presto, divideranno l’Italia, come solo la Democrazia Cristiana di De Gasperi e il PCI di Togliatti hanno saputo fare.

Il famoso passaggio della borraccia tra Gino Bartali (sx) e Fausto Coppi (dx). Tour de France 1952.
I due acerrimi nemici a bordo delle loro biciclette sono amici nella vita, tanto che Gino rimarrà vicino a Fausto durante la malattia che lo portò via nel 1960. – © Omega / Carlo Martini

Il 1948 non è solo l’anno di Ladri di biciclette, ma anche della pellicola Totò al Giro d’Italia di Mario Mattioli. Il professor Casamandrei – alias Totò – dal fisico tutt’altro che atletico si inserisce nella lotta per la Maglia Rosa tra Gino Bartali, Fausto Coppi, Fiorenzo Magni e Louison Bobet. La partecipazione alle riprese di numerosi campioni dell’epoca testimonia l’importanza del ciclismo nella cultura di massa italiana dell’epoca e ci restituisce un’immagine poetica di uno sport ormai profondamente rivoluzionato.

La partenza della Corsa Rosa raccontata nel film “Totò al Giro d’Italia“.
Nell’estratto della pellicola si vedono, tra gli altri, Bartali, Coppi e Bobet.

Ai nastri di partenza del Giro 1949, a Milano, i favoriti sono i due grandi rivali Coppi e Bartali, come sempre quando si presentano al via. Il toscano Gino ha in bacheca tre Giri d’Italia e due Tour de France, l’ultimo solo l’anno prima, quando in una tappa memorabile recuperò in un solo giorno 21′ minuti alla Maglia Gialla Bobet, aiutando a salvare l’Italia dalla Guerra Civile che sembrava stesse per scoppiare a seguito dell’attentato al Segretario del PCI, Palmiro Togliatti. Ma è anche un uomo di quasi 35 anni, che si è visto togliere gli anni più belli della carriera dalla guerra. Fausto il ligure, invece, di anni ne cinque di meno: ha vinto il primo Giro giovanissimo, proprio alla viglia dello scoppio del conflitto bellico, replicando poi nel 1947. Ma gli anni delle vittorie che lo consegneranno per sempre alla Leggenda di questo sport devono ancora arrivare, a partire proprio da quel 1949.

Bartali vuole ripetere lo strabiliante successo al Tour dell’anno prima, mentre Coppi vuole sconfiggere il rivale di sempre. Però, il 2 giugno, al via della Bassano del Grappa-Bolzano, la Maglia Rosa è da una settimana sulle spalle di Adolfo Leoni, che vanta circa 7’ minuti di vantaggio sui due. Il reatino non è uno scalatore, ma è pronto a morire sulla bici avendo tra le mani l’occasione della vita. Gino e Fausto si marcano stretto, nessuno dei due vuole esporre il fianco all’attacco dell’altro. Nei pressi di Predazzo, dove si trova il rifornimento, Bartali si stacca di qualche metro dall’amico-rivale per farsi dare una banana da un compagno. Proprio in quel momento, mentre il rivale di sempre è alle prese con frutto, Coppi scatta e allunga. È una tattica che gli ha consigliato il suo massaggiatore e confidente Cavanna: il toscano è sanguigno, orgoglioso, testardo, se ti resta a ruota non lo stacchi neanche se ne hai più di lui, ma se riesci a prendere qualche metro, tu sei un miglior cronoman, quello non ti prende più. Ed infatti va proprio così, Coppi guadagna terreno ed a fine giornata ha conquistato 6’ 58’’ sul duo Bartali-Leoni, che riesce a tenere per qualche secondo la Maglia Rosa sulle spalle.

Gino Bartali a ruota di Coppi, che si volta per controllare la posizione del rivale. Giro d’Italia 1949.
© bikeraceinfo.com

Quel giorno, una Lancia Blu, con a bordo due uomini che si dirigono verso Canazei per andare a pesca, viene fermata da un poliziotto. Non possono proseguire perché sta per passare la carovana del Giro. Così, i due accostano e si mettono a bordo strada. Poi, dopo pochi minuti, proprio su quel tornante passa Fausto Coppi in fuga. Giusto il tempo di due pedalate veloci, forse uno sguardo. Sicuramente gli uomini a bordo strada hanno potuto leggere l’espressione sfigurata dallo sforzo sulla faccia del Campione. Uno di quei due è Ernest Hemingway, che di quel fugace incontro ne parlerà più volte.

Questo è lo sport puro e vero. Fanno una fatica terribile per ore e ore, quasi non riesco a crederci che vadano su da soli per quelle salite.

eRNEST HEMINGWAY

Il 10 giugno, alla partenza della Cuneo-Pinerolo, la terz’ultima tappa, Coppi sente di avere tra le mani le sorti del Giro 1949: deve recuperare solamente 43 secondi da Leoni in Rosa ed il tracciato di giornata non sembra dare molte chance di conservare la Maglia al leader della corsa. Le nuvole basse nascondono il sole ed una pioggia fine bagna i corridori e le strade, molte delle quali sterrate. La tappa è di quelle dure, durissime: sono 254 km, con cinque passi da scollinare (Maddalena, Vars, Izoard, Monginevro e Sestriere) per un totale di quasi 10 mila metri di dislivello, di cui la metà in salita.

L’altimetria della Cuneo-Pinerolo del Giro d’Italia 1949. – Fonte: UltimoUomo

Nessuno degli uomini di classifica sembra intenzionato ad accendere la miccia fino agli ultimi chilometri, sarebbe una follia attaccare prima e rischiare di “scoppiare” sulle pendenze vertiginose. Dopo una cinquantina di chilometri, il gruppo è sul Colle della Maddalena, di cui si possono intravedere le cime innevate. Nei pressi di Argentera, improvvisamente, evade Primo Volpi, che non è un uomo di classifica. Il suo allungo sembra solo un giro di roulette per tentare la fortuna. Ma è proprio in quel momento, quando il fuggitivo ha guadagnato qualche decina di metri (forse un centinaio), che succede qualcosa di inimmaginabile: Coppi si alza sui pedali e parte. I diretti rivali restano sbigottiti, Fausto ha allungato come se mancassero una manciata di chilometri e non 192 (!): una mossa tatticamente insensata considerando la Classifica Generale in quel momento. Allo scollinamento sulla Maddalena ha già riagguantato Volpi ed ha un vantaggio di un minuto e mezzo sul gruppo Maglia Rosa. Bartali, che è anche lui un Campione, capisce prima degli altri quello che sta succedendo e sulla salita del Vars si lancia all’inseguimento dell’eterno rivale. Da quel momento, la corsa si trasforma in una cronometro tra i due, una battaglia a distanza che non sarà decisa dal talento – di cui entrambi ne dispongono un enorme quantità -, ma da cuore e gambe.

Non ne rivedremo più che due fino a Pinerolo. Il fuggiasco e l’inseguitore, i due massimi eroi, disputantisi a denti stretti il regno. Gli altri rimasero di dietro, sempre più indietro separati da valloni e precipizi, lottando tra di loro strenuamente, ma ormai erano fuori di questione. Tutto era concentrato là, nel contrasto tra i due solitari e l’ansia teneva i cuori.

Dino Buzzati

Sulla cime del Vars, Coppi ha già un vantaggio di 4′ 30” su Bartali, che si trasformano in quasi 7 minuti sull’Izoard e oltre 10 a Jomaux. Il toscano, indomito leone del ciclismo, prova in tutti i modi a resistere, ma nulla può fare per recuperare lo svantaggio. Coppi sta volando ad un appuntamento romantico e poetico con la Storia.

Fausto Coppi affronta in solitaria le strade sterrate dell’Izoard durante la Cuneo-Pinerolo 1949. Un’immagine poetica di un ciclismo eroico. – © Archivio Gazzetta dello Sport

Non sono in molti gli italiani che stanno seguendo la Cuneo-Pinerolo in televisione, che si diffuse largamente nel paese solamente con il boom economico degli anni ’60. Ma sono le voci e le penne che stanno raccontando quell’incredibile impresa, che permettono alla Tappa di passare alla storia. Come Mario Ferretti, storico radiocronista dell’EIAR, nel 1944 diventata RAI, che apre il suo collegamento con una frase che resterà impressa nella memoria collettiva italiana e che ancora oggi è forse la più famosa pennellata dedicata a Coppi.

Un uomo solo è al comando. La sua maglia è bianco-celeste. Il suo nome è Fausto Coppi.

Mario Ferretti
Mario Ferretti intervista Fausto Coppi dopo il traguardo di Pinerolo, 10 giugno 1949. – © Arch. Gazzetta dello Sport.

Al seguito della corsa c’è un raffinato intellettuale come Dino Buzzati, i cui resoconti escono il giorno successivo sul Corriere della Sera. E mentre un leggiadro Coppi scala forsennatamente tutte le montagne che si trova davanti, Buzzati capisce che più che il vincitore, c’è da raccontare il vinto: gran parte del fascino di questa tappa risiede nel tentativo disperato di Bartali di ribellarsi al tripudio e all’incensazione del suo più grande rivale.

Era lurido di fango, la faccia grigia di terra e immota nello sforzo. Pedalava come se qualche cosa di orrendo gli corresse dietro e lui sapesse che a lasciarsi prendere ogni speranza era perduta. Il tempo, null’altro che il tempo irreparabile gli correva incontro. Ed era uno spettacolo quell’uomo solo nella selvaggia gola in lotta disperata contro gli anni. […] E questo è amaro anche perché ci ricorda intensamente la nostra comune sorte. Oggi per la prima volta Bartali ha capito di essere giunto al tramonto. E per la prima volta ha sorriso. Coi nostri occhi, passandogli accanto, abbiamo constatato il fenomeno. Uno dal bordo della via l’ha salutato. E lui, voltando un po’ la testa da quella parte, ha sorriso, lo scorbutico, lo scostante, l’antipatico, l’intrattabile orso dall’eterna grinta di scontento, proprio lui ha sorriso. Perché lo hai fatto, Bartali? Non sai di aver distrutto così l’ispido incanto che ti difendeva? Gli applausi, gli evviva della gente ignota cominciano ad esserti cari? Così terribile è dunque il peso degli anni? Ti sei arresto finalmente?

Dino Buzzati

Nel suo resconto, Buzzati parlerà anche di una «tappa divoratrice di uomini» e di «Achille che sconfigge Ettore». Infatti, dopo più di 9 ore di corsa, Coppi arriva a Pinerolo con un vantaggio di 11′ 52” su Bartali secondo e di poco meno di 20′ sul quartetto Martini, Cottur, Bresci e Astrua. E proprio Alfredo Martini, in seguito anche commissario tecnico della nazionale italiana, arrivato stremato al traguardo, dichiarerà: «Quando stavo rientrando in albergo, a tappa conclusa, mi entrò nella testa che quel tracciato non lo aveva visionato alcuno. Una tappa impostata sulla carta geografica, ma mai visionata».

Non avevo neppure pensato a una pazzia simile, anzi, ho sbagliato. Ho soltanto risposto a uno scatto di Volpi quando la salita, dopo Argentera, sui faceva più ripida e mi sono trovato in testa. Ho visto Bartali un po’ indietro e ho continuato, ed eccomi qui. Ma quanto è stata dura. Troppo lunga!

Fausto Coppi, a Giuseppe Ambrosini del Guerin Sportivo
Le immagini di repertorio della Cuneo-Pinerolo, 17esima tappa del Giro d’Italia 1949.

Quando le ultime luci giorno stanno per scomparire, con il sole già da tempo sceso dietro le montagne e il buio che avanza, un piccolo gruppo di corridori giunge finalmente al traguardo: è l’ultimo drappello dei 66 partiti in mattinata. Ci sono Luigi Malabrocca e Sante Carollo, che stanno dando vita ad una memorabile battaglia al contrario per la conquista della Maglia Nera, a colpi di forature auto-inflitte. Quel giorno, però, non c’è bisogno di escamotage per perdere tempo, visto quanto è dura la tappa. Sulle salite, il gruppo si è fatto più numeroso del solito. È un gruppetto di morti sulla sella di una bicicletta, convinto che insieme si possa lottare più facilmente contro il tempo massimo.

Alfredo Martini, sfigurato dalla fatica, all’arrivo di Pinerolo.
10 giugno 1949. – © Archivio Gazzetta dello Sport

Due giorni dopo, all’Autodromo di Monza, dove termina il Giro d’Italia 1949, viene incoronato campione – naturalmente, e come potrebbe essere altrimenti – Fausto Coppi, con quasi mezz’ora di vantaggio su Gino Bartali. Quell’anno, l’uomo solo al comando riuscirà a vincere anche il Tour de France, diventando così il primo ciclista a centrare la storica doppietta (impresa che replicherà nel 1952). Ed è proprio durante la Cuneo-Pinerolo del 1949 che Faustino ha posto le basi per il soprannome che lo incorona, forse, come il più grande ciclista di ogni epoca: il Campionissimo.

Nella poltiglia della Maddalena, ho visto Coppi venire via dagli altri. Sfangava, quasi sollevando la bicicletta. Lo accompagnai fino a un paesino francese, mi pare Barcelonette. Lo lasciai andare. Entrai in una trattoria. Ordinai un pasto completo, degli hors d’oeuvre al caffè. Mangiai con tempi da buongustaio. Fumai una sigaretta. Chiesi il conto. Pagai. Uscii. Stava passando il sesto.

Pierre Chany, L’Equipe