Come si diventa ciò che si è sempre stati? Come farlo quando tutto ti invita a rinunciare e tutti sembrano averti abbandonato? Quanto bisogna essere disposti a cadere in basso prima di iniziare la faticosa risalita? A tentare di mostrarcelo è la storia di un ragazzo di un piccolo comune baiano, che fin da bambino aveva deciso chi era e chi sarebbe diventato e che di questa scelta era pronto a subire tutte le conseguenze. Un piccolo percorso nelle storie delle vite che stanno dietro e dentro uno dei generi musicali più amati del il XIX secolo: la Bossa Nova.

Joao Gilberto

O coração tem razões
Que a própria razão desconhece

J.Gilberto – “Aos Pes da Cruz”

Joaozinho

Se nel 1955 aveste avuto denaro a sufficienza per regalarvi un viaggio a Rio de Janeiro e vi foste addentrati di notte nella movida del bairro di Copacabana, con ogni probabilità avreste visto barcollare per le strade – oltre a una fauna di loschi personaggi ben lieti di farsi offrire un bicchiere – una figura miserabile, lisa e consunta.
Barba di qualche giorno, vestiti sgualciti e capelli lunghi: “um pouco louco”, avrebbe detto qualcuno indicandovelo. Lo avreste visto aggirarsi senza una meta precisa borbottando – forse canticchiando qualcosa di confuso –, oziando fuori dai locali senza mai entrare e senza mai essere invitato all’interno. Difficile rimanere impassibili davanti a una figura del genere. Se gli aveste rivolto la parola – in ogni caso sarebbe stato lui a venirvi incontro – non avrebbe cercato di farsi dare qualche spicciolo come gli altri, ma avrebbe tentato di convincervi a bere un bicchiere con lui, o a fumare assieme qualche grammo di marijuana.

Copacabana al tramonto. Immagine tratta da “fotocommunity.it

In un secondo momento, avrebbe sicuramente notato la malridotta chitarra che, come ogni giovane viaggiatore, vi sareste portati dietro, attenti a sfruttare ogni possibilità di una schitarrata alla luna sotto lo sguardo divertito del Cristo Redendor. Da bravi backpackers (ante litteram nel 1955) avreste condiviso volentieri lo strumento con quell’affascinante relitto umano. Se vi foste distratti un attimo, però, non avreste trovato più ne l’uomo né lo strumento, e avreste passato la nottata a maledire lui e la vostra ingenuità.
Ma lo stupore sarebbe stato ancora più grande il giorno seguente quando avreste incrociato di nuovo il louco, intento a canticchiare sommessamente qualcosa su una panchina nei pressi della Biblioteca Nazionale o dell’Avenida Atlantica. Vi avrebbe restituito la chitarra (che difficilmente si sarebbe dimenticata di essere stata suonata per tutta la notte), non prima di avervi detto che non gli era proprio piaciuta e che avrebbe preferito delle corde in nylon, difficili da trovare da quelle parti.
Sollevati dal lieto fine della vostra disavventura avreste alzato i tacchi velocemente, rimproverandovi per la vostra leggerezza e resistendo a stento alla voglia di sferrargli un gancio ben assestato, forse impietositi dalla miseria di quel matto dai modi affettati e istrionici. Che tristezza dava guardare quel giovane che, perso nella sua follia, sembrava essere sul punto di sfondare la quarta dimensione!

Joaozinho non poteva che incolpare se stesso per il suo fallimento. I suoi genitori, Donna Patu e il signor Juveniano, che tanti sforzi avevano fatto per assicurare un’istruzione adeguata alla loro numerosa prole, avevano da tanto tempo rinunciato a vederlo realizzato nella scuola o almeno indipendente nel lavoro. Il ragazzo si era dimostrato notevolmente avverso alla disciplina e allo studio e fin da piccolo aveva deciso di intraprendere un percorso ben più accidentato: sarebbe diventato Joao Gilberto. Osservando le numerose fotografie che lo ritraggono solare, pulito e sbarbato, intento a suonare e cantare baixinho (dolcemente, sottovoce) con la faccia del bravo ragazzo, si fa fatica a immaginarlo nascosto dall’intrico di sudore, barba e disperazione che gli permeava il volto in quegli anni. La verità è che Joaozinho sembrava aver irrimediabilmente perso la rotta verso Joao Gilberto e forse nel percorso ci stava anche per lasciare anche la propria salute mentale.

Nel 1955 aveva toccato il fondo e la sua caduta non sembrava destinata a fermarsi. Eppure, solo pochi anni prima era stato assunto come giovanissimo cantante nei Garotos da Lua (uno dei più amati gruppi canori di tutta l’area di Rio de Janeiro) ed era assolutamente convinto di essere la stella nascente che in breve tempo avrebbe brillato nel firmamento dei migliori musicisti brasiliani. Il suo narcisismo, inutile dirlo, superava di gran lunga il suo talento. Il suo carattere impossibile e il suo disinteresse totale per qualsiasi tipo di rispetto per la professione erano solo alcune delle motivazioni che indussero i Garotos a cacciarlo malamente dopo poco tempo.

“Quando Você Recordar” – Os Garotos da Lua con João Gilberto


Joao non si strappò i capelli per il licenziamento, sebbene quello di cantante fosse un lavoro vero – un lavoro da fame, sia chiaro, ma pur sempre un lavoro! Era stufo di essere presentato come il giovanotto di provincia capace di imitare i grandi cantori popolari; la sola cosa che gli interessava era di intraprendere la propria carriera solista. Questione di tempo prima che il mondo si accorgesse di lui e gli tributasse i dovuti onori. Questione di tempo. Questione di tempo. Mentre si ripeteva come un mantra questa frase il tempo passava, la sua carriera si inabissava e il suo nome sbiadiva velocemente dalla scena musicale di Rio. Anche chi gli era stato vicino e aveva creduto in lui aveva esaurito la pazienza nei suoi confronti, solitamente dopo averlo mantenuto a proprie spese per un lungo periodo di tempo.        

Joao Gilberto all’ultimo show amatoriale della Bossa Nova. Immagine tratta da “jornaltornado.it”

L’esilio: Porto Alegre e Diamantina.

L’unica decisione possibile era andare via da Rio.
Ma dove? La sua famiglia gli aveva tagliato i fondi da tempo e lui non si era mai tenuto stretto un impiego normale al di fuori della musica. Non che questo desiderio di fare musica lo avesse spinto a fare gavetta, magari cantando in qualche locale o accompagnando con la chitarra una delle molte cantanti notturne per racimolare qualche spicciolo: Joaozinho sembrava completamente incapace di intraprendere un qualsiasi tipo di attività lavorativa e di tenersela abbastanza a lungo da riuscire a mantenersi. Non aveva contatti di lavoro né amici disposti a ospitarlo in altre città. L’unico che gli restava e che gli aveva teso una mano era Luis Telles, la cui grande preoccupazione era portare via Joao dalla marijuana di Rio che, a suo dire, era la grande colpevole dell’inguaribile malinconia che stava distruggendo il suo amico. Joao decise quindi di passare sette mesi in un hotel di Porto Alegre, visto che Luis Telles – con tutto il bene – non sembrava disposto a tenerselo in casa. Riuscì finalmente a dedicarsi full-time alla chitarra e a ritrovare un po’ di affetto (e di autostima) nella gente del posto, che si dimostrò molto ben disposta nei suoi confronti, accettando anche le sue stravaganze, i suoi orari improponibili e la sua vita sregolata.
Chi si metteva a parlar di musica con lui, però, lo trovava preoccupato dalla ricerca di qualcosa di “moderno”, di una “novità” che non sapeva definire e che lo teneva in uno stato di profonda inquietudine. La solitudine e la noia iniziavano a morderlo di nuovo e in breve tempo sembrò non esserci più nulla da fare a Porto Alegre, senza contare che i fondi di Luis Telles non erano infiniti e che Joao non era un ospite spartano da mantenere. L’affetto di Luis era comunque sincero e lo preoccupava molto l’idea che Joao, tornato a Rio, potesse ricadere nella routine che lo aveva già distrutto una volta. Gli propose quindi un cambiamento ben più grosso: andare da sua sorella a Diamantina.

Stranamente l’idea piacque a Joao e fu così che, nel Settembre del ’55 dopo una brevissima tappa a Rio (utile a confermare le preoccupazioni di Luis Telles), Dadainha vide comparire sul portone di casa il proprio fratellino. Quando arrivò, Joaozinho era in evidente disordine emotivo e Dadainha, da poco diventata madre, non potè fare altro che accoglierlo. Come ammise lui stesso qualche anno dopo, fu proprio durante le notti passate a canticchiare nenie cullando la sua nipotina che Joaozinho decise di smettere definitivamente con la marijuana, dando a Luis Telles una piccola ma significativa gioia.

Rimase a Diamantina fino al Maggio ’56. Nessuno lo vide mai fuori casa. Passava la giornata in pigiama e non era uscito neanche per il Carnevale. L’unica cosa che sembrava motivarlo all’azione era la chitarra, studiare nuove soluzioni, nuovi ritmi, nuovi modi di cantare, creare qualcosa di nuovo e di mai sentito. Girava per le stanze della casa in preda alla sua mania, suonando lo stesso accordo per ore, canticchiando, apparentemente avulso da tutto ciò che gli succedeva intorno. Era il bagno, però, la stanza che preferiva e dove passava la maggior parte della sua giornata. Come tutti i cantanti da doccia sanno bene, l’acustica perfetta di cui sembrano godere tutti i bagni del mondo permetteva a Joao di ascoltarsi cantare e sentire allo stesso tempo la chitarra, studiare gli appoggi armonici e soprattutto lavorare sul ritmo degli accordi.

Primo piano di “Joaozinho”. Immagine tratta da “debaser.it”

Fu proprio lì, tra le rifrazioni sonore che il bagno gli restituiva, che lentamente Joao Gilberto arrivò a creare quel ritmo unico della mano destra sulla chitarrala batida – che gli rimbombava in testa da anni e che avrebbe riempito di meraviglia tanto musicisti affermati di tutto il mondo quanto intere generazioni di chitarristi da spiaggia. In quei due anni d’esilio, Joaozinho si trasformò faticosamente in Joao Gilberto, facendo i conti con i propri fallimenti, con il proprio ego malato, con il proprio talento e dando finalmente forma ai propri pensieri.          
Non che avesse raggiunto uno stato di illuminazione oggettivamente riconoscibile: guardando Joao che faceva i conti con i propri demoni nessuno avrebbe mai immaginato che potesse uscirne qualcosa di buono. Alternava momenti di costernazione profonda a momenti di euforia immotivata, manteneva pochi contatti sociali e già in città si scommetteva sul momento in cui i suoi nervi avrebbero irrimediabilmente ceduto. Fu per questo motivo (e non solo perché dopo mesi e mesi Joao non sembrava avere intenzione di ripartire né di darsi minimamente da fare per il sostentamento della casa) che Dadainha decise di portarlo a Juazeiro, dai genitori, con la scusa di far conoscere la neonata. Joao si oppose fermamente a questa decisione, ma si trovò a dover fare i conti un’altra volta con la propria miserabile situazione: non aveva alternative credibili.

C’era umiliazione più grande che tornare nella casa paterna senza un soldo e in piena crisi esistenziale? Fu il colpo di grazia all’idea che Joao aveva di sé. In città non si accorsero nemmeno che Joaozinho era tornato e il signor Juveniano non mancava occasione di rimproverarlo, cassando malamente anche quella Bim Bom di cui Joao andava tanto orgoglioso. Riprendeva molto dai classici samba, è vero, ma mostrava, seppur in maniera embrionale, sprazzi della sperimentazione ritmica e armonica che Joao stava faticosamente portando avanti da anni. Il padre la etichettava senza troppi giri di parole come un “noioso nhem-nhem”.

João Gilberto – “Bim Bom“, scritta nel 1956, verrà registrata ufficialmente nel 1958


Mentre la solitudine lo soffocava, le preoccupazioni di chi gli stava intorno sul suo stato di salute mentale crebbero considerevolmente, tanto da spingere la famiglia a decisioni drastiche. Joao Gilberto venne quindi internato all’ospedale delle Clinicas de Salvador, sottoponendosi a una raffica di colloqui con diversi medici per valutare lo stato dei propri nervi. Fortunatamente per lui, al di là della sua ironica, irridente e vaneggiante attitudine poetica, non gli furono diagnosticate problematiche mentali gravi e fu libero di uscire dall’ospedale dopo poco più di una settimana. Sicuramente Joao non pensava di restare a lungo dai suoi genitori, ma quest’ultima disavventura affrettò il momento della sua partenza. Tutti temevano per lui, ma ormai si era deciso a tornare a Rio: si sentiva musicalmente pronto e aveva la ferma volontà di cancellare dalla testa di tutti la sua prima visita alla cidade maravilhosa. Non che avesse molto da perdere, in ogni caso.      
 
Nel 1957 Rio si preparava a riaccogliere il figliol prodigo, senza peraltro essere sicura di riconoscere in lui quel ragazzo che aveva ammaliato e cacciato giusto un paio di anni prima. A stento se lo ricordava e non fu indetta festa cittadina per il suo ritorno.
Nessuno pareva essersi accorto della sua assenza e Joao non era certo del modo in cui i suoi amici lo avrebbero trattato, sempre che di amici gliene fossero rimasti. Fu ancora una volta Luis Telles (guadagnandosi un piccolo posto in paradiso) che si dimostrò pronto ad accoglierlo, speranzoso che stavolta la sua premura, il suo affetto e la sua fiducia venissero, almeno in parte, ripagati. La pazienza di tutti, però, ha un limite e Joao ci avrebbe messo pochissimo a superare quello di Luis, che lo mise alla porta – ingoiando le lacrime – dopo poco tempo. Era la decisione più difficile che Luis avesse mai preso, ma gli sembrava l’unica possibile per far sì che il suo amato protegee si scuotesse da quella assurda inabilità a vivere. Quello che né lui né Joao potevano immaginare era che l’occasione per un radicale cambiamento di vita stava lentamente e in maniera totalmente insperata acquisendo consistenza. Joao stava infatti spendendo le sue vagabondanti nottate con un gruppo di giovani che condividevano i suoi gusti musicali e che sembravano molto felici di averlo con loro. Di quel gruppo faceva parte anche un certo Chico Pereira, che lavorava come fotografo per la Odeon (una delle più importanti etichette discografiche di Rio e del Brasile) ed era convinto di aver trovato in Joao un musicista unico che, con i giusti contatti, avrebbe sicuramente avuto successo. Chico, da parte sua, quei contatti li aveva e, dopo un periodo di conoscenza con Joao e qualche nastro inciso insieme a tarda notte, decise che i tempi erano maturi per presentarlo a qualcuno. Chico stava per creare un connubio musicale che gli avrebbe fatto guadagnare la sincera gratitudine delle generazioni successive. In Odeon, infatti, lavorava un musicista che si era fatto le ossa per anni sui pianoforti dei peggiori locali notturni di Rio e che stava ormai raccogliendo quanto di buono aveva seminato. Per cominciare, era riuscito a strappare un ottimo contratto come compositore alla Odeon e stava acquisendo una certa notorietà nel panorama musicale brasiliano, che già iniziava a chiamarlo con il prestigioso soprannome di O Maestro. Era forse una delle ultime occasioni per Joao di entrare nel mondo della musica (e che occasione!) e si sorprese – forse per la prima volta nella sua vita – ad essere sinceramente nervoso mentre si incamminava verso Rua Nascimento Silva, a Ipanema, per andare a suonare al campanello di Antonio Carlos “Tom” Jobim.