Voleva fare tabula rasa di tutta la sua esistenza, eliminando ogni cosa che potesse ricordargli una felicità ormai perduta, che giorno dopo giorno, senza neppure un perché, gli si era sgretolata tra le mani, lasciandolo con il cuore gonfio di dolore e un futuro senza più certezze, senza più una famiglia da proteggere. [..] proprio all’alba di quel giorno in cui una pratica dell’avvocato avrebbe messo il timbro ufficiale sul fallimento del suo matrimonio, ha preso la pistola che aveva acquistato tempo fa per difendersi dai ladri ed ha iniziato a sparare, ha iniziato a far tabula rasa.
Avrebbe potuto essere un qualsiasi giornale, e invece è proprio “Il Giornale” a raccontare un femminicidio e una strage in famiglia dopo un divorzio.

Di tutte le battaglie combattute e vinte nel Novecento quella che ha più sconvolto l’opinione pubblica e il nostro vivere quotidiano è stata proprio la lotta per poter affermare il diritto a divorziare tra due coniugi, conclusasi con l’approvazione della legge n.898 in tema di “Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio“, il primo dicembre di cinquant’anni fa.


La fine di una storia d’amore è un fatto antico come l’amore, a maggior ragione se pensiamo che per molto tempo l’amore non ha avuto assolutamente niente a che fare con i vincoli matrimoniali. In Italia all’inizio – e non solo – del Novecento non era ancora impensabile sposarsi per convenienza o abitudine, per profitto o per riparazione, un termine elegante per definire l’accordo raggiunto tra due uomini – uno stupratore e un padre – per mettere insieme i cocci della donna stuprata: sposarsi con chi l’ha deflorata è l’unico modo per riottenere l’onore perduto. Istituito sotto il fascismo il matrimonio riparatore ci mise ancora più tempo a scomparire dalla nostra giurisdizione, abrogato nel 1981 insieme al delitto d’onore.

Non dividere ciò che Dio ha unito, è lo scudo della retorica cattolica contro il divorzio. Ma per chi se lo poteva permettere la Chiesa aveva da secoli un’efficiente soluzione: la Sacra rota. Un tribunale adeguatamente predisposto per annullare ciò che proprio Dio aveva unito. Con un timbro della Sacra Rota il matrimonio svanisce, non è mai esistito: non ci sono figli, non ci sono obblighi né morali né economici. Le motivazioni vanno da quelle più serie, come la violenza fisica, ad alcune più bizzarre e grottesche (recentemente è stata inserita la causa di mammismo, secondo la quale viene dimostrato che uno dei coniugi non riesce a recidere il cordone ombelicale con la famiglia di origine, creando difficoltà alla nuova famiglia). Questa preziosa istituzione ha consentito ai potenti di tutti i tempi di sciogliere a piacimento i propri legami matrimoniali, con il favore di Dio o di chi per lui lo concedesse.

Franca Viola, la prima donna a rifiutare il matrimonio riparatore in Italia © Twitter

Il divorzio è un tema scottante in un paese come l’Italia: sin dall’antica Roma è consentito per l’uomo e quasi impossibile per la donna a cui non è concesso di risposarsi, se non bona gratia perché il coniuge risulta disperso o prigioniero di guerra da cinque anni oppure per essere ammessa in un monastero.

Come ci insegna perfettamente la serie TV Netflix The Crown attraverso le vicende del divorzio di Peter Townsend, amante della regina, e di John Michael Avison Parker, segretario personale del principe Filippo, il divorzio poteva essere accettato solo dimostrando la colpevolezza del coniuge: tipicamente adulterio, abbandono e crudeltà.

In Italia le prime proposte di introduzione dell’istituto del divorzio in età repubblicana vennero presentate dal parlamentare socialista Renato Sansone tra il 1954 e il 1958, ma i tempi non erano ancora maturi, sia in Parlamento – i progetti di legge non vennero mai discussi – sia nel Paese reale alle prese con la ricostruzione e fortemente legato alla propria tradizione cattolica.

Quando la prima proposta varcò le aule parlamentari, a seguito del disegno di legge proposto dall’Onorevole socialista Loris Fortuna, era il 1965. Il mondo cattolico italiano stava ancora digerendo le novità del Concilio Vaticano II – tra cui spiccavano la volontà di combattere le ingiustizie sociali e una rinnovata attenzione verso gli ultimi, che avrebbero portato alla nascita della corrente denominata “teologia della liberazione “, per molti sintesi del marxismo in ambito cattolico – e gran parte della stampa non lo prese neanche in considerazione.

Manifestazione del 1962 per il divorzio

Com’è immaginabile, la Democrazia Cristiana, insieme a tutto l’associazionismo cattolico, osteggiò apertamente il disegno di legge proposto dall’Onorevole Fortuna, ma anche il mondo laico e il Partito Comunista furono all’epoca cauti nel portare avanti la questione. Ben presto, però, le posizioni si sarebbero delineate e il dibattito pubblico si sarebbe acceso.

La scintilla partì dal Partito Radicale sulla scia del suo leader Marco Pannella che costituì la LID, la Lega Italiana del Divorzio. Questo movimento diede linfa a dibattito portandolo agli occhi della pubblica opinione e supportando la proposta politica di Fortuna. Ad affrontare per primo il tema verso l’opinione pubblica fu il settimanale “L’Espresso” che nel numero del 24 aprile 1966 titolava “Arriva il divorzio. Lo aspettano un milione di coppie infelici.

Alle spalle della battaglia per il divorzio c’è il contesto storico degli anni Sessanta e i rapidi mutamenti economici e sociali che stavano modificando radicalmente il volto dell’Italia negli anni del boom economico.

Da un lato, le iniziative della LID portarono in piazza migliaia di italiani, dall’altro il Vaticano scendeva in campo per il tramite della presidenza della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) attraverso il suo “braccio armato”, l’Azione Cattolica, in supporto della famiglia contro la possibile piaga della poligamia e del libero amore.

Accanto alla questione legislativa, il divorzio poneva l’accento su tematiche sociali molto importanti, soprattutto nell’ambito del rapporto tra uomo e donna. Fu il 1° dicembre 1970 che il Presidente della Camera Sandro Pertini annunciò l’esito della votazione finale sulla legge Baslini-Fortuna con la legge n. 898 introducendo il divorzio nella legislazione con 319 sì e 286 no.

La DC e l’opinione del Vaticano portarono a una ridiscussione del tema con il famoso referendum del 1974 sostenuto soltanto dalla DC e dal Movimento Sociale Italiano (MSI), un partito di estrema destra: referendum abrogativo in cui vinse di larga misura il “no”. La scelta dell’opinione pubblica fu talmente forte e importante che il divorzio non venne mai più rimesso in discussione – destino che toccò e continuamente tocca al tema invece considerato più discutibile dell’aborto.

L’introduzione del divorzio portò a una radicale ridiscussione del ruolo della donna, che si vedeva per la prima volta alla pari dell’uomo nella possibilità di interrompere il vincolo matrimoniale senza dover presentare colpe da parte del coniuge. Sembra naturale pensare a un percorso di progressiva e sempre migliore consapevolezza e allargamento di diritti. Ci piace pensare che così funzionino la democrazia e la società liberale.

Invece, a pochi giorni dalla ricorrenza del 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, in un articolo che fornisce un resoconto di cronaca di un femminicidio leggiamo che: il divorzio è un fallimento del matrimonio, l’assassino è un uomo disperato che vuole fare tabula rasa.
L’abitudine a giustificare la violenza sulla compagna e sulla moglie, abitudine che tende a raccontare sempre il punto di vista dell’uomo, a compatirlo per la sua perdita senza approfondire le ragioni che hanno portato al divorzio stesso, quando basterebbe rispettare la scelta di una donna di porre fine a un rapporto semplicemente perché ritiene che per la sua vita sia meglio così, ci fa capire quanta strada ancora manchi perché la donna possa effettivamente essere libera di decidere della propria vita ed esistenza.

E se l’indagine ISTAT del 2014 mostrava che il 31,5% delle donne italiane tra i 16 e i 70 ha subito una violenza è ancora più allarmante vedere come fino al 63% degli stupri è stato commesso da un partner o un ex partner. Il report dei centri antiviolenza nel 2019 riportava che “rispetto al 2017 risultano in aumento (+13,6%) le donne che si sono rivolte ai CAV: sono state 49.394 nel 2018, 17,2 ogni 10mila. Le donne che hanno avviato un percorso di uscita dalla violenza sono 30.056, delle quali il 63,5% lo ha iniziato nel 2018. Il 63% delle donne che hanno iniziato il percorso di allontanamento dalla violenza ha figli, minorenni nel 67,7% dei casi. Le donne straniere costituiscono il 28%.”

Sono passati 50 anni, ma rimaniamo sordǝ di fronte agli appelli dei centri antiviolenza sulle donne – la pandemia di Covid non aiuta, sono aumentate le richieste di aiuto di donne abusate, rinchiuse in casa e su cui viene fatta violenza al riparo nei loro domicili. I soldi ci sono, eppure mancano.
L’opinione pubblica si smuove tra polemiche e intralci ed è dell’anno scorso (legge n. 69 del 9 agosto 2019) l’ultimo provvedimento contro la violenza domestica e di genere, ad esempio limitando la costrizione o l’induzione al matrimonio o contro le lesioni permanenti al volto. Un provvedimento che avremmo potuto aspettarci appunto 50 anni fa.

E’ trascorso mezzo secolo, eppure continuiamo a guardare la facciata e ad accontentarci di una cronaca logora e totalmente avulsa dalla realtà. Nell’attesa che questo 2020 finisca possiamo solo augurarci tuttǝ che al 51°esimo anniversario festeggeremo una società più libera e più protettiva verso le donne.