Mercoledì di Coppa” è il nuovo speciale della redazione di Olympia, che vuole analizzare e contestualizzare la nascita e lo sviluppo delle competizioni UEFA per club. Dalla Coppa dei Campioni nata nel 1955, fino alla possibilità, di cui si parla ormai da tempo, di creare una nuova Superlega con tutti i migliori club d’Europa. Il viaggio, in questi 75 anni, è stato lungo e tortuoso ed ha visto il fiorire di diversi tornei di differente importanza: Champions League, Europa League, Coppa delle Coppe, Mitropa Cup, Intertoto, Europa Conference League.
Ogni trofeo ha la sua storia, è nato in momenti storici diversi ed è cambiato insieme al calcio. La redazione prova a riannodare i fili partendo dal principio, con lo scopo di cercare di capire qual è il futuro che ci attende.

All’epoca c’erano le cifre e non le lettere. E il gruppo numero due dell’edizione dei mondiali di calcio di Messico ’70 desta una certa curiosità negli spettatori neutrali. Infatti, in campo, ci sono ben quattro Coppe Rimet, due di matrice europea (l’Italia) e due provenienti dal Sudamerica, in particolare dal Rio de la Plata (l’Uruguay). Un’altra nazione europea, la Svezia, è il classico terzo incomodo di un girone difficile, mentre a completare il gruppo c’è una new entry alla prima storica partecipazione mondiale: Israele.

Tra il 4 e il 14 dicembre del 1969, sei mesi prima della trasferta transoceanica in Messico, a Tel Aviv e a Sidney israeliani e australiani si giocano, in uno spareggio, l’ultimo pass disponibile per il mundial. Israele vince in casa 1-0 e strappa un pareggio in Oceania, riuscendo a qualificarsi per la prima (e ultima) volta ad un mondiale di calcio. Quella israeliana non è una semplice gita fuori porta: a Puebla ed a Toluca, sedi delle partite del girone, pareggia sia con la Svezia sia con noi (futuri finalisti) e cede solamente all’Uruguay. Non male per essere la prima volta. Non male, essendo l’unica qualificata del blocco di nazioni dell’AFC, la Federazione asiatica. Svelato il semplice arcano. Semplice poiché, geograficamente parlando, dovrebbe essere così. La nazionale di calcio e le squadre di club israeliane dovrebbero partecipare agli eventi sportivi asiatici, come il Libano, la Giordania, la Siria, giusto per citare i territori confinanti. Sappiamo che oggi non è così, poiché abbiamo visto più volte comparire il nome di Israele nei gruppi di qualificazioni europei (la prima Italia di Ventura andò a vincere 3-1 in Medio Oriente); le squadre di club israeliane hanno ripetutamente disputato le competizioni UEFA per club. Cambiando sport e passando alla palla a spicchi, il Maccabi Tel Aviv è stata una delle squadre di basket più forti d’Europa nei primi anni 2000, conquistando l’Eurolega nel 2001, nel 2004 e nel 2005.

Il Maccabi Tel Aviv al termine di una vittoriosa campagna europea (Eurolega). – Fonte: Facebook

Fu la Guerra del Kippur, combattuta nell’ottobre del 1973, a segnare un punto di non-ritorno in ambito politico-calcistico. Infatti, fin dall’anno successivo, i paesi arabi della federazione asiatica misero forti pressioni all’AFC escludendo, de facto, Israele dalle competizioni calcistiche asiatiche. Per circa un ventennio i calciatori israeliani errarono venendo ospitati, a turno, sia dall’UEFA, sia dalla federazione calcistica oceanica. In questo modo poterono partecipare alle qualificazioni mondiali, ma non ebbero la possibilità di disputare nessuna competizione continentale. E pensare che negli anni ’50 e ’60 Israele fu una vera potenza del calcio asiatico, vincendo la Coppa d’Asia del 1964 e ottenendo due secondi posti nel 1956 e nel 1960, oltre ad un terzo posto nel 1968, in un’edizione disputatasi in Iran: oggi sarebbe difficile anche solo immaginare uno scenario del genere.

Ovviamente non sono mai mancate le polemiche riguardo la presenza calcistica di Israele in territorio europeo. Sorvolando sulla leggenda per cui Cristiano Ronaldo si sia rifiutato di scambiare la sua camiseta portoghese con i colleghi israeliani (anche se, almeno economicamente, ha mostrato di sostenere la causa palestinese), risulta essere più interessante ciò che è successo, realmente, in Scozia. Ad agosto 2016, in occasione dei preliminari di Champions, i tifosi del Celtic (la metà cattolica di Glagsow) accolsero gli israeliani dell’Hapoel Be’er Sheva sventolando per Celtic Park migliaia di bandiere palestinesi. Le stesse bandiere ricomparvero un paio di anni dopo, nella primavera del 2018, quando gli stessi tifosi scozzesi esibirono i drappelli palestinesi per mostrare solidarietà alle vittime della striscia di Gaza.

Preliminari di UEFA Champions League 2016. Durante la sfida tra gli scozzesi del Celtic Glasgow e gli israeliani dell’Hapoel Be’er Sheva, i tifosi di casa sventolano migliaia di bandiere palestinesi.

La scelta di Israele di affiliarsi alle federazioni sportive europee, ovviamente, non rappresenta un caso isolato. La domanda, a questo punto, è legittima: che cosa significa Europa, nel calcio? O meglio, in quale categoria rientra? Sentimento, cultura, geografia o burocrazia?

Premessa doverosa: tre quarti dei confini europei sono facilmente tracciabili poiché, semplicemente, c’è il mare. Nella fattispecie l’Oceano Atlantico, il Mediterraneo e il Mar Glaciale Artico. Ad Oriente la faccenda diventa spinosa, tant’è che fin dal ‘700 ci si accorse che i monti Urali, da soli, non sarebbero stati sufficienti a tracciare un netto confine tra i due continenti. Fin dai lavori geografici del tedesco von Strahlenbergh (incaricato dalla zarina russa Anna I) il mar Caspio venne prontamente escluso dal territorio del vecchio Continente, considerando la depressione del Kuma-Manyć come la linea di demarcazione tra il blocco europeo e quello asiatico.

Gli intricati confini euroasiatici. – © Wikimedia Commons

Con il disfacimento dell’URSS ad inizio anni ’90, sorsero una lunga serie di stati che, prontamente, vollero iscriversi ad una federazione calcistica. I paesi baltici, la Bielorussia e l’Ucraina entrarono prontamente (e facilmente) a far parte della UEFA. Avvicinandosi al mar Caspio la situazione si fece complessa: Georgia, Azerbaijan e Armenia sorgono proprio a ridosso della zona del Kuma-Manyć, l’area geografica in cui è in vigore, fin dagli anni della misurazione di von Strahlenbergh, una grossa diatriba riguardo i reali (e concretamente esistenti?) confini naturali tra i due blocchi continentali.

Tornata tristemente d’attualità qualche mese fa, con l’inasprimento del conflitto del Nagorno-Karabakh, la diatriba tra armeni e azeri venne alla ribalta in ambito calcistico già durante la primavera del 2019. Infatti, il calciatore armeno Mkhitaryan (all’epoca all’Arsenal) scelse, dopo attente riflessioni, di non partire per Baku, capitale azera, luogo dove si sarebbe disputata la finale di Europa League, nonostante, perlomeno di facciata, il governo azero avesse dichiarato che non ci sarebbe stato alcun problema diplomatico o di ordine pubblico.

L’Azerbaijan negli ultimi anni ha intensificato enormemente la sua influenza all’interno dello scacchiere del calcio europeo. Lo stadio di Olimpico di Baku, infatti, dovrebbe (condizionale d’obbligo) ospitare quattro partite dell’Europeo itinerante del 2021, il quale, probabilmente, alla fine sarà meno itinerante delle aspettative. Il maestoso impianto da quasi 70mila posti è stato inaugurato recentemente ed è andato a mettere in ombra l’altro grande stadio della capitale azera, dedicato a Tofiq Bahramov, arbitro di calcio e guardalinee per un giorno, quando nel 1966 salì alla ribalta convalidando il non-gol di Hurst e dando agli inglesi la prima e unica gioia mondiale.

Ancora più intricata è la vicenda del Kazakhistan. Il più grande stato al mondo senza accesso sul mare fu l’ultimo a dichiarare la propria indipendenza dall’Unione sovietica. Inizialmente si iscrisse alla AFC, la federazione calcistica asiatica, salvo chiedere di affiliarsi alla UEFA nel 2002. La richiesta kazaka venne accolta, tant’è che tutt’oggi risulta essere la nazione più orientale d’Europa, perlomeno in ambito sportivo (escludendo ovviamente la Russia). Eppure, a differenza dell’ex madre-patria, le cui grandi metropoli Mosca e Pietroburgo per storia, cultura e tradizione si sono sempre affacciate al continente europeo, la capitale kazaka Nur-Sultan (nota anche come Astana, sede del giovane club calcistico FC Astana, che negli ultimi anni è riuscito a qualificarsi ripetutamente alla fase finali delle competizioni europee) si trova molto più ad Oriente dei monti Urali, praticamente sullo stesso parallelo di Islamabad, capitale del Pakistan. La domanda ritorna legittima: in quale ambito rientra l’Europa calcistica? Sentimento, cultura, geografia o burocrazia?

Nur-Sultan, ex Astana, capitale del Kazakistan. – Fonte: Twitter

Trattando di confini (geografici e non) dell’area eurasiatica, l’esempio maggiormente borderline è senz’altro quello della Turchia. Il dibattito su un possibile ingresso della Turchia all’interno dell’Unione Europea è stato caldissimo all’inizio del secolo, ma si è lentamente raffreddato in seguito all’inasprimento delle misure autoritarie del sultanato di Erdogan. Da un punto di vista strettamente calcistico la federazione turca è un membro dell’UEFA dagli albori. La finale di Champions League 2020 si sarebbe dovuta disputare proprio nel magnifico stadio Atatürk di Istanbul, salvo dover abbandonare il progetto in seguito allo scoppio della pandemia, con il trasloco della fase finale della competizione (dai quarti in poi) alla periferia occidentale del territorio europeo, precisamente a Lisbona, dove Neuer e compagni hanno alzato la Coppa dalle grandi orecchie nel vuoto e desolante Estádio da Luz. Teoricamente quest’anno, il 2021, dovrebbe essere quello buono: Istanbul tornerà ad ospitare una finale di Champions League dopo quella del 2005, incubo per varie generazioni di milanisti. Inoltre, continuando a utilizzare il condizionale, la nazionale turca, qualificata agli europei e sorteggiata all’interno del nostro stesso girone, dovrebbe disputare due partite (contro Galles e Svizzera), proprio a Baku, capitale dell’Azerbaijan, nazione che fin dallo scoppio del conflitto del Nagorno-Karabakh ha ricevuto ingenti aiuti dal governo turco, volti a rafforzare il proprio potere in quell’area del planisfero, a discapito dell’altro contendente, ovvero l’Armenia.

Come sempre accade quando si tratta di nazionali calcistiche, la questione si allarga, finendo per oltrepassare i classici confini di un campo di gioco. D’altronde i confini calcistici, proprio come quelli tra Europa e Asia, risultano essere particolarmente labili.


PUNTATE PRECEDENTI
1. Coppa dei Campioni: la nascita di un’Europa calcistica
2. Champions League: il torneo più prestigioso
3. Europa League: breve storia di un coppa in continua evoluzione
4. Coppa delle Coppe, mistica ripetizione dal sapore antico
5. L’Europa dei piccoli: Mitropa Cup, Intertoto e Conference League