In occasione della Giorno della Ricordo, abbiamo provato a ragionare sui concetti di storia e memoria in relazione alla Shoah e agli eccidi delle foibe e, allo stesso tempo sulla relazione tra uso pubblico e politico della Storia. A quasi due mesi di distanza abbiamo raggiunto David Bidussa, storico sociale delle idee e consulente della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli di Milano per porgli alcune domande di carattere generale sul rapporto storia-memoria e sullo stato delle politiche memoriali nel nostro Paese.

Cos’e storia e cos’è memoria? E in che misura interagiscono?

La memoria è un costrutto di ricordi e immagini che io deposito, attuando però una selezione, decidendo quindi di non inserire per intero tutti quei ricordi collegati ad un preciso avvenimento. La storia invece è la versione che io costruisco, o di quello che interpreto, di ciò che ho davanti e per comprendere la quale mi servono sia alcuni strumenti concettuali che ho acquisito nel tempo sia di quei ricordi ed immagini che fanno parte della mia memoria. Quando nell’individuo entrambe coincidono creano un senso di soddisfazione e completezza, quando invece differiscono creano problematicità, a volte esplosiva. Ogni uomo ha bisogno di costruire una narrazione che sia coerenza del racconto che fai. Qui entra in gioco il ruolo dello storico che non è un “riordinatore”, ma è uno che fa le domande dei passaggi non chiari del racconto di memoria che si trova davanti chiedendosi due cose principalmente: che tipo di racconto ha davanti e in quali condizioni è stato reso.

Come giudica le politiche memoriali del nostro Paese? Sono spostate più sulla comprensione della storia o sul rafforzamento della memoria?

Il calendario memoriale del nostro paese corrisponde ad un processo di difficile equilibrio perché la sensazione che si ha è quella di una redistribuzione corporativa delle memorie che decreta di aver risolto il problema semplicemente accostandone una accanto all’altra. Quello che manca nell’insieme delle date memoriali del nostro Paese è una funziona pubblica, collettiva, capace di stare sopra le singole date dicendomi che cosa vuole comunicare, quali aspetti cogliere, quale obiettivo si pongono. Non abbiamo bisogno solo tante date riconducibili soggetti “feriti” perché il rischio è di costruire solo un calendario funebre. Ma in un calendario civile sono importanti anche i momenti in cui si trionfa. L’urgente necessità è quella di costruire un calendario memoriale che si costruisca su date impegnative e problematiche perché sono (o dovrebbero essere) momenti di bilancio collettivo: un patto per il futuro e non una banale ricostruzione di quello che è stato.

La Germania, a differenza dell’Italia, ha provato ad affrontare anche duramente il proprio passato indagando e condannando mandanti, esecutori e complici della Shoah. Di qualche settimana fa è la notizia di un processo ad una anziana 95 enne segretaria del campo di concentramento di Stutthof. A suo giudizio quanto ha pesato tutto ciò nella costruzione di una memoria collettiva nazionale tedesca e quanto oggi impatta sulla costruzione delle politiche memoriali?

Atti di questo genere, a 75 anni di distanza dagli avvenimenti, dimostrano che non hai avuto la capacità di elaborare un modo diverso di tornare a riflettere sul tuo passato, pur ricordandolo. Assomiglia quasi una pratica vendicativa. E’ dichiarare di non essere riuscito a fare i conti con il nostro passato in altri modi su quei processi significa che non sei stato in grado di costruire una etica pubblica. E’ sicuramente una sceneggiatura potente ed evocativa ma che nasconde una fragilità ed un’incapacità di pensare il proprio passato attraverso altre modalità. Come fa una atto giudiziario a giudicare degli attori e una scena di 75 anni prima? Non sarebbe preferibile invece costruire autobiografie di storie esemplari, anche di chi è finito in carcere e sotto processo, nel senso di storia delle decisioni e dei contesti in cui quegli attori hanno preso decisioni per approfondire?