Nelle ultime settimane la Francia ha visto riaccendersi la controversia sull’uso del velo islamico. Il Senato francese ha approvato la “proposta di legge per rafforzare il rispetto dei principi della Repubblica.” 

La legge prevede la regolamentazione dell’esibizione dei simboli religiosi e vieta alle ragazze sotto i 18 anni di indossare l’hijab negli spazi pubblici. Inoltre, le pazienti musulmane non potranno richiedere di avere come medici delle donne per motivi religiosi. A luglio, diverrà illegale la macellazione dei polli secondo le norme halal. Inoltre, Parigi ha obbligato le macellerie halal a vendere alcolici e carne di maiale. Un altro emendamento alla legge vieterebbe di indossare simboli religiosi alle accompagnatrici e accompagnatori alle gite scolastiche, colpendo in particolar modo le mamme musulmane che indossano il velo. 

Vediamo un rinnovato tentativo di vietare il burkini che era già stato proposto nel 2016 dal Governo Francese ma duramente criticato dalle Nazioni Unite come dimostra la dichiarazione di Rupert Colville, portavoce della commissione per i diritti umani dell’Onu: «Queste decisioni non migliorano la sicurezza ma piuttosto alimentano l’intolleranza religiosa e stigmatizzano i musulmani in Francia, specialmente le donne». 

Niente di nuovo

Il punto di partenza della controversia sul diritto delle donne islamiche di indossare il velo islamico risale al 1989 con il cosiddetto Affaire du foulard. Il termine si riferisce a una serie di contestazioni pubbliche che hanno avuto inizio con l’espulsione da scuola di tre ragazze musulmane che indossavano il velo. Seguì, nel 1996, l’espulsione di massa di ben 23 ragazze islamiche secondo una decisione del Comitato di Stato. Gli sviluppi hanno portato, nel 2004 e poi nel 2010, all’applicazione della legge, tutt’oggi vigente, che vieta di indossare simboli religiosi nelle scuole e, in generale, in spazi pubblici istituzionali sulla base del principio francese di laicità

Queste leggi furono appoggiate da organizzazioni antirazziste e pro-immigrazione e dai gruppi femministi che, secondo una concezione neo-liberale di società, interpretano il velo come simbolo dell’oppressione patriarcale del mondo islamico. Nonostante ciò, alcune femministe si opposero mostrando come la legge francese avrebbe impattato negativamente sulla vita e sulla libertà delle donne musulmane e avrebbe fomentato l’islamofobia già diffusa nel Paese. 

La riflessione di Cécile Laborde

Cécile Laborde è politologa ed insegnate all’Università di Oxford. In Critical Republicanism: The Hijab Controversy and Political Philosophy presenta un’analisi molto interessante sulla controversia del hijab in Francia. 

Ho accennato al principio di laicità francese alla base di questa legislazione ma vediamo cosa significa e comporta. Secondo i laicisti, lo Stato dovrebbe, attraverso il sistema educativo, emancipare le ragazze. Come fare? La soluzione sarebbe quella di costringere le ragazze ad essere autonome vietando loro di indossare il velo. Il paradosso liberale paternalista è evidente. 

Negando loro il diritto di indossare l’hijab non solo negano la loro autonomia ma le costringono ad essere escluse dalla scuola. In questo modo, creano leggi discriminatorie e perpetuano quella stessa disuguaglianza di genere che affermano di combattere. Libertà: il termine più controverso per eccellenza. Le norme della società francese di autonomia e uguaglianza sono considerate universalmente simbolo di libertà. 

Protesta di studenti contro il divieto di indossare l’hijab, nota come “HijabisFightBack”, Bruxelles, Giugno 2020

Alcuni critici hanno messo in discussione un tale assolutezza e hanno evidenziato come lo “svelamento” forzato delle ragazze musulmane sia figlio di pratiche della dominazione colonialista. Ancora una volta vediamo un paradosso. I laicisti vogliono imporre alle ragazze musulmane di fare ciò che la stessa Repubblica francese non è stata in grado di fare, ovvero, di sfidare le strutture sessiste delle norme di genere nella società

I laicisti hanno dedicato molta più attenzione a “simboli visibili dell’oppressione” come il velo musulmano rispetto alle vere pratiche di oppressione di genere che colpiscono pesantemente molte donne della società come: la violenza domestica, la disuguaglianza salariale, l’equilibrio lavoro/famiglia, le mutilazioni genitali. In questo modo le donne musulmane, ancora una volta, vengono considerate come «simboli della cultura piuttosto che come agenti individuali».

Creare la propria identità

Oggi, al centro della mentalità moderna della società contemporanea, si mostra sempre più evidente l’esaltazione della pluralità delle identità culturali, di genere e sessuali. In questo contesto vediamo un netto distacco dall’individualismo dei laicisti e dalla loro unica concezione di emancipazione. L’individuo sotto questa concezione tende ad una ricreazione autonoma della propria identità in contrasto con il potere omologante del mercato e della società. 

Con questa accezione è possibile interpretare l’uso del velo tra i giovani musulmani occidentali, anziché come simbolo di oppressione patriarcale, piuttosto come il tentativo di ricreare e rivendicare una propria identità. Questo bisogno ha portato molte persone a ricercare nella religione un punto fermo che possa dare stabilità nell’era globalizzata in continuo movimento e sviluppo. Con le parole di Cécile Laborde: «L’indossare volontariamente l’hijab può significare il “recupero e l’affermazione” di una “identità finora marginalizzata».

Cosa simboleggia indossare l’hijab?

Innanzitutto, il velo definisce uno status di rispettabilità e di sicurezza. Inoltre, rafforza l’autonomia delle giovani donne contro i dettami della moda occidentale e della “pervasiva sessualizzazione del corpo delle donne”. Il velo ha avuto un importante impatto sociale per le donne, soprattutto nelle società formalmente governate dalla Sharia. In passato, l’utilizzo del velo ha permesso alle donne l’accesso a importanti luoghi sociali come l’università, il lavoro e gli uffici pubblici. In questo modo, hanno avuto la possibilità di uscire dalle mura domestiche e affacciarsi alla vita pubblica della società. 

Nel mondo globalizzato in cui ci troviamo, la miscela di culture e ideologie è sempre più evidente e di conseguenza le nuove generazioni devono trovare dei compromessi tra forze differenti e creare una propria individualità. Le giovani musulmane francesi, ad esempio, si ritrovano a dover bilanciare una doppia appartenenza: la società francese che le spinge a “liberarsi da tradizioni oppressive” e dall’altra il legame con la loro famiglia e comunità d’origine. 

Il velo si dimostra un potente strumento di bilanciamento offrendo, da una parte, una garanzia alle famiglie di fedeltà alle proprie radici e, dall’altra parte, offre una maggiore autonomia delle ragazze all’interno della società occidentale. Tuttavia, è importante tener in considerazione che indossare l’hijab può anche rappresentare una riappropriazione individuale dei precetti dell’Islam e la creazione di un rapporto indipendente con l’Islam da parte delle donne stesse. 

«Così esse implicitamente o esplicitamente, contestano le nozioni occidentali dominanti di emancipazione femminile come un processo necessariamente secolare».

Femminismo Islamico

Negli anni ‘90 è nato in Iran il movimento conosciuto come Femminismo Islamico. Secondo le femministe islamiche la struttura patriarcale delle società musulmane è dovuta a costumi “pre-islamici” e alla conseguente mal interpretazione da parte degli uomini delle pratiche della Sharia. Infatti, a questo proposito, le femministe islamiche affermano che, anzi, il Profeta Muhammad aveva cercato di emancipare le donne e predicato l’uguaglianza di tutti gli esseri umani. 

Un simbolo del femminismo islamico

Con questa visione, si può affermare che le donne hanno il diritto di ricreare e di reinterpretare la religione ridisegnando le regole della Sharia che possano promuovere l’uguaglianza di genere. Così, le donne che decidono di indossare l’hijab lo fanno liberamente affermando un autonomo rapporto diretto con Dio. 

Laborde, nella sua riflessione, traccia un parallelismo forse un po’ audace ma molto interessante. Fino a questo punto abbiamo trattato la lotta delle donne per l’affermazione di sé rispetto ai due modelli di genere concepiti dall’’Islam tradizionale, da un lato, e dai canoni occidentali di emancipazione sessuale femminile, dall’altro. In aggiunta, si ipotizza un terzo parallelismo, quello con la “causa queer”. Il movimento queer, infatti, propone di demolire la concezione delle identità di genere e sessuali come fisse e immutabili e propone una radicale fluidità di esse senza confini predefiniti.

Possiamo vedere, così, come anche l’uso del hijab possa rappresentare l’espressione di una ricreazione di identità libera dai dogmi della religione e della società e, in questo modo, diventare strumento per definire moderni ruoli di genere. Un’ottima rappresentazione di questa fluidità d’identità è quella che Homi Bhabha ha definito «terzo spazio». 

Questo terzo spazio è quello che in un certo senso la comunità LGBTQIA+ ha cercato di plasmare, cioè uno spazio libero per tutti coloro che si sentono esclusi dalle due categorie predominanti, uomo e donna. Qui l’identità è libera di modellare le proprie forme di continuo in base alla costante relazione con la realtà e con il contesto che la circonda senza dover essere racchiusa in rigide etichette.

I laicisti non sono in grado di guardare oltre ai loro modelli considerati immutabili e universali. In questo modo non riescono a mettere in discussione la loro idea di donne che indossano il velo come oppresse anziché come donne che cercano di trovare un compromesso tra culture diverse e trovare una propria identità definita da sé stesse piuttosto che dai canoni che la società impone loro.

In conclusione

Nonostante il quasi totale silenzio delle testate giornalistiche italiane e straniere, l’approvazione del senato francese della misura che vieta di indossare l’hijab ha importanti conseguenze culturali e sociali. 

È necessario rendersi conto che più le donne e gli uomini musulmani vengono accusati di arretratezza e diversità più essi si sentiranno stigmatizzati ed emarginati e così cercheranno di difendere la loro cultura. Il paternalismo laicista ha come unico risultato di rafforzare quelle stesse forze che cercano di combattere: i musulmani e musulmane faranno ancora più fatica ad integrarsi e, in particolare, le donne porranno in primo piano la lotta contro l’islamofobia e gli stereotipi occidentali rispetto alla lotta per l’uguaglianza di genere. 

Così facendo il Senato Francese ha approvato una legge che, innanzitutto, limita i diritti delle donne islamiche e viola la libertà di culto, di associazione, di istruzione e di opinione. Diritti che, in teoria, gli stessi stati repubblicani perseguono. Inoltre, accrescerà sempre più la polarizzazione tra cultura occidentale e islamica. 

Manifestanti contro il divieto del burkini da parte della Francia, fuori dall’ambasciata francese di Londra.

In società multiculturali come le nostre non è più accettabile il silenzio e l’inerzia di fronte a tali accadimenti. Bisogna portare temi sociali e culturali come questo al centro del dibattito pubblico affinché i cittadini concepiscano tali violazioni dei diritti umani non solo come violazioni nei confronti di minoranze oppresse ma come responsabilità di ogni cittadino di questi stessi Stati.