Rassegnati è la rubrica settimanale che seleziona un fatto degli ultimi giorni per provare a mostrare com’è stato riportato dalla stampa italiana. Tra strategie comunicative ed errori, viene svelato il filtro che copre ogni notizia. Oggi parliamo della presa di Kabul da parte dei talebani e della loro prima conferenza stampa.
Domenica 15 agosto i talebani – un’organizzazione politica e militare caratterizzata da una visione fondamentalista dell’Islam – hanno completato la conquista dell’Afghanistan con l’invasione della capitale. Il Paese è tornato quindi sotto il loro controllo, come lo è stato tra il 1996 e il 2001, anno in cui il regime talebano fu rovesciato dall’intervento militare statunitense.
Giunti alle porte della città, il governo presieduto da Ashraf Ghani si è sciolto e ha lasciato posto al loro ingresso, che ha scatenato il panico a Kabul. Le immagini circolate in tutto il mondo ne sono la testimonianza: aerei sovraffollati, persone appese ai velivoli, lunghe code davanti alle banche per prendere i propri risparmi e poi fuggire.
Martedì 17 agosto i talebani hanno tenuto la prima conferenza stampa dopo la conquista di Kabul. Un evento molto atteso a livello internazionale per capire quali saranno le mosse del nuovo governo.
Il Post riassume già nel sottotitolo la posizione più diffusa tra i media italiani: «si è parlato di governo inclusivo, di diritti delle donne e di terrorismo, ma molte promesse vanno prese con scetticismo». Ascoltando la conferenza stampa, infatti, ci si chiede «se i talebani governeranno l’Afghanistan nella stessa maniera autoritaria e repressiva di vent’anni fa, oppure se […] si mostreranno più moderati e “presentabili”, in modo da avere più legittimità a livello internazionale».
Il protagonista della conferenza stampa è stato Zabihullah Mujahid, portavoce dei talebani, che parla di pace per l’Afghanistan e di non imporre ritorsioni verso chi ha collaborato con i governi stranieri. Il Post, però, parla di una «significativa promessa, che comunque potrebbe anche non essere mantenuta, come tutte le altre» e di un «tanto annunciato processo di riconciliazione nazionale, a cui non è al momento facile credere».
Le dichiarazioni dei talebani, soprattutto in merito ai diritti delle comunità marginalizzate, si scontrano infatti con il terrore diffusosi in questi giorni e con le testimonianze dei e delle civili afghane. Mujahid ha parlato anche della volontà di concedere libertà alle donne nei limiti della legge islamica e di bloccare la coltivazione del papavero da oppio. Divieto annunciato anche nel precedente governo ma rimasto solo sulla carta e continuato illegalmente.
Il Post cita infine il gruppo terroristico al Qaida e la dichiarazione dei talebani di voler interrompere ogni rapporto con esso. Anche questo elemento incontra lo scetticismo dell’opinione pubblica, che non gli dà credibilità. Inoltre la testata ricorda che le promesse espresse durante la conferenza stampa potrebbero non essere mantenute «anche perché dentro al gruppo continua a esserci una distanza considerevole tra i leader che parlano coi giornalisti e con i governi stranieri e i combattenti e funzionari locali, quelli che poi si trovano a governare effettivamente in diverse parti del paese».
Anche Il Fatto Quotidiano mostra un certo scetticismo già nel titolo: «Afghanistan, i talebani promettono amnistia e donne nel governo (ma sotto la sharia). L’Ue: “Uguali a prima, parlano solo meglio inglese”». I punti essenziali su cui si sofferma la testata, però, sono diversi rispetto all’articolo precedente. Si parla sì delle promesse formulate durante la conferenza stampa, ma l’attenzione è data alla reazione delle forze internazionali.
Viene riportato il commento di Josep Borrell, rappresentante della politica estera dell’UE, «Mi sembra siano uguali a prima, ma parlano un inglese migliore». Poche righe dopo, si ricorre nuovamente alle sue parole per introdurre i temi del «disastro migratorio» e della crisi umanitaria, i veri protagonisti dell’articolo.
Proprio a proposito di migrazioni, si rimarca la necessità di evacuare lo staff europeo e quello afghano che ha collaborato con l’Occidente, ma si esprimono le preoccupazioni dei Paesi dell’UE verso i profughi. Vengono riportate le dichiarazioni del premier Draghi e del ministro degli Esteri Di Maio in merito alla fuga dei civili dall’Afghanistan, ma il loro contenuto è piuttosto vago. Si parla di una «risposta europea comune» più che di accoglienza o di corridoi umanitari.
Infine si passa agli USA e al fatto che durante l’estate le agenzie di intelligence avevano avvertito della possibilità di «un rapido collasso dell’esercito afghano di fronte a un’avanzata dei talebani». Il presidente Biden e il suo staff, però, avevano ritenuto questo fatto improbabile.
La Stampa, infine, apre l’articolo con un estratto della conferenza stampa, in cui Mujahid parla dei rapporti con al Qaida e delle relazioni di pace che si vogliono istituire con le potenze internazionali. Viene riportata la prospettiva dei talebani sulla conquista del Paese: «Questo è un momento di orgoglio per l’intera nazione […]. Dopo 20 anni di lotte abbiamo liberato l’Afghanistan ed espulso gli stranieri».
La testata dedica inoltre una parte consistente dell’articolo alle affermazioni relative alle donne e inserisce un video, in cui vengono mostrati e spiegati i diversi tipi di velo islamico diffusi nel mondo. Poco oltre si specifica che nel territorio afghano verrà richiesto di indossare il hijab (che copre solo i capelli) e non il burqa (che copre tutto il corpo, occhi compresi). Questa attenzione al tipo di velo indossato dalle donne nel nuovo governo afghano è al centro delle rappresentazioni multimediali circolate nell’ultima settimana. Fotografie vere e proprie, illustrazioni, vignette: tutte hanno al centro le donne e il loro copricapo. Perché?
Si tratta naturalmente di una scelta comunicativa. Attraverso una serie di immagini ben riconoscibili si cerca di trasmettere un messaggio molto chiaro: il carattere autoritario e lesivo della libertà individuale del nuovo governo talebano e l’assonanza con quello di vent’anni fa. Il burqa azzurro è diventato un’icona, uno strumento che fornisce al pubblico l’impressione di sapere sì come orientarsi davanti alla notizia ma anche di averla già assimilata. Un simbolo, però, che in quanto tale toglie parte della complessità di ciò che rappresenta. Le donne afghane si trovano davanti non solo alla possibilità di dover indossare il burqa, ma a una perdita di libertà più ampia.
In conclusione, davanti a una società mutata, si presentano trasformati anche coloro che ne vogliono prendere il controllo. I media italiani raccontano i proponimenti espressi durante la conferenza stampa con una notevole dose di perplessità. Alcuni si concentrano più sul contenuto, altri sulle reazioni al di fuori dell’Afghanistan, ma lo scetticismo permane. Per comunicare in modo diretto la notizia al pubblico si ricorre ai simboli più noti e familiari. Gran parte dell’attenzione è andata ai flussi migratori generati dagli ultimi eventi, ma manca – in questi articoli – la presenza della voce dei civili e delle civili afghane.