The Birds. Hitchcock tra molteplici interpretazioni

The Birds. Il titolo originale scandiva i toni e i tempi della “minaccia”, l’onta aviaria che abbatteva il mondo degli uomini, lo sovrastava. Non con la sola forza fisica, non col solo battito di ali, nemmanco con quel fascino tipico dei volatili che librandosi nell’aria sembrano scrutare il mondo dall’alto verso il basso. Hitchcock aveva concepito uno dei suoi memorabili capolavori – molti, troppi, di una carriera interminabile – partendo dal presupposto che, come sempre, quanto più si potesse creare una psicosi crescente interna ai personaggi, tanto più lo spettatore l’avrebbe estrapolata e fatta sua. Così la violenza psicologica coincideva con quella fisica, la tensione in crescendo trasmetteva dal particolare al generale i suoi connotati, assumendo quel tono apocalittico che prestava il film a una dimensione interpretabile secondo differenti livelli, dal sociale al politico, dallo psicanalitico, passando per il sociologico e il religioso, financo alla dimensione sessuale. Per chi volesse costruirsene un quadro definito con gli orpelli, qui se ne fa menzione con un’analisi impeccabile; a interesse dei nostri giorni, rimane memorabile l’assunto dell’ormai compianto Morando Morandini, da traslare sine magno labore alla realtà che viviamo: «è stata letta anche come una parabola cristiana: attaccati dai volatili, gli uomini imparano ad essere più umani, più solidali, ad amarsi». Cristiano-cattolica, verrebbe da aggiungere, e l’aggiunta non è pleonastica.

Tippi Hedren in “Gli uccelli” (“The Birds, Alfred Hitchcock, 1963)

Anticomunismo, antimaccartismo. L’invasione degli ultracorpi

Rimaniamo sul tema, facendo un passo indietro a livello cronologico. Al pari del capolavoro hitchcockiano siede, nella storia delle psicosi viste, raccontate, sviscerate al cinema, L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel, un gioiello di fantascienza costato pochi dollari che si impone nella storia del cinema in un momento in cui a dominare in Hollywood sono soprattutto le megalitiche produzioni kolossal. Va premesso sin da subito che Donald Siegel, all’epoca inspiegabilmente considerato un regista di B-movie, fu in realtà un fuoriclasse del mestiere, tanto che ancora oggi è idolatrato da un nutrito numero di cinefili che ne hanno, soprattutto a posteriori, rivalutato l’opera omnia densa di passione e artigianalità per la Settima Arte. Poco importa se ora non sono più gli uccelli a minacciare la razza umana, ma gli extraterrestri: anche nel caso de L’invasione il senso della psicosi che incombeva ricevette dalla critica interpretazioni che si prestavano bene alla contingenza storica, al periodo. Ma il capolavoro di Don Siegel era in chiave anticomunista oppure, di contro, anti-maccartista? L’America usciva da poco dal dramma del maccartismo, il periodo era quello della caccia alle streghe, e strega faceva all’epoca rima con simpatie progressiste, Unione Sovietica, comunismo. L’artigiano del cinema, però, Siegel stesso, si affrancò da tali disquisizioni: come accadrà poi per il suo collega britannico, la critica aveva avuto la necessità di vedere più lontano dell’artista.

“L’invasione degli ultracorpi” (Donald Siegel, 1956)

Todo modo, la Quarantena dei Democristiani

In quarantena si svolge anche gran parte dell’ambientazione di Todo Modo, lungometraggio di strenua eleganza, non privo di un forte rispetto degli spazi- claustrofobici in questo caso – e dei volti. Elio Petri, il quale – non s’ offenderà alcuno nel leggere questo – aveva girato di meglio, centrò solo parzialmente il bersaglio. La spartizione del potere in interni tra uomini democristiani rinchiusi in un eremo post-moderno dal nome Zafer per sfuggire a un’epidemia, comunque, è suggestiva: esercizio estetico finché si vuole, ma recitato benissimo, diretto meglio e omaggio intrinseco anche all’architettura e al design; qualcosa della magia, della mitologia e della teologia tenebrosa rientrava in questo climax narrativo che si sopiva da solo, in un film tratto da un noto romanzo di Leonardo Sciascia. Qui la psicosi si fa mista al delirio di onnipotenza: alla paura si accompagna il senso del potere, il tutto in un’angoscia smisurata: il film dura troppo, è verboso, pecca di eccessi. Eppure eccessivamente merita una menzione.

Marcello Mastroianni, Gian Maria Volontè, “Todo Modo” (Elio Petri, 1976)

Giocare a scacchi con la morte mentre infuria la Peste

Nel cinema di Bergman il tormento dell’uomo è sempre tormento universale, teologia, filosofia, affannosa ricerca della Verità, cioè rincorsa a un Dio assente. Soprattutto ne Il settimo sigillo. Cosa ha a che fare però il tormento di un cavaliere medievale di ritorno dalla Terra Santa con le psicosi collettive? È chiaro che l’indicibile attualità di questo film- da pochi giorni è morto Max Von Sydow – si deve, più che ogni altro aspetto, a come il lungometraggio affronta, sia pur in modo teatrale, quel concetto di peste nel Medioevo che altro non è che riflessione sulla morte stessa. Non a caso la sua scena più famosa è quella d’apertura: Antonius Blok gioca a scacchi con la morte di fronte al mare, prima di ritrovarsela in un confessionale, inaspettatamente, in un’altra memorabile sequenza di pochi minuti successiva.

L’assunto però qui va rovesciandosi: non è tanto fondamentale quanto un contemporaneo abbia da dire sul rapporto tra vita e morte nel medioevo, ma quanto il rapporto tra vita e morte nel medioevo possa insegnare alla contemporaneità che di entrambe le cose tenta la rimozione. Ecco perché la psicosi collettiva, il timore del morbo, qui viene attenuata da un contesto storico che della disperazione fa la normalità. Tutto è grazia.

Bengt Ekerot, Max Von Sydow, “Il settimo sigillo” (Det sjunde inseglet, 1957)