Neanche settant’anni. È la somma delle età di Julian Nagelsmann e Matthias Jaissle, gli allenatori che sono si sfidati negli ottavi di finale di Champions League tra Bayern Monaco e Red Bull Salisburgo. Se in alcuni Paesi come Germania o Austria vedere due poco più che tecnici trentenni ai massimi livelli, non è così raro, in Italia la situazione è decisamente diversa. Quali siano le difficoltà per emergere per i giovani allenatori le spiega Gabriele Raspelli, classe 1982, allenatore della prima squadra della Rhodense, club lombardo che ha portato dalla Promozione all’Eccellenza, dove milita attualmente.
Un tecnico, che nonostante non abbia ancora compiuto quarant’anni, ha già un lungo curriculum in panchina. «Dal 2006 sono uno degli istruttori di Inter Campus e ho allenato sia nel settore giovanile che nelle prime squadre – spiega – sono stato alla Pro Sesto, al Calvairate, al Renate, al Bresso e ora a Rho, mi occupo dell’attività di base ». Raspelli, che è in possesso del patentino Uefa B, quello necessario per allenare le squadre dilettantistiche e il settore giovanile eccetto la Primavera, fatica a fare passi avanti, almeno sotto il profilo della formazione.
«Sono sei o sette anni – spiega l’allenatore originario di Sesto San Giovanni – che faccio domanda per essere ammesso al corso UEFA A (necessario per allenare tutte le formazioni giovanili, tutte le prime squadre femminili e quelle maschili fino alla Serie C, oltre che per fare il “secondo” in A e B n.d.R). Sono sempre stato respinto, perché nell’attribuzione dei punti per la graduatoria pesa molto la carriera da giocatore. E la mia si è interrotta a 23 anni nei dilettanti». «Spesso tra i corsisti dell’UEFA A – prosegue – ci sono molti che magari hanno presenze in B e in C e ti sono davanti in graduatoria. In più i costi non sono bassi, visto che superano i 2000 euro».
La difficoltà di accedere ai corsi necessari ad allenare ad alto livello non è l’unica ragione per cui molti tecnici giovani e appassionati non emergono. «Anche a questo livello – racconta Gabriele – serve avere dei buoni agganci. In tanti si “vendono” bene, arrivano portando gli sponsor, o attraverso i procuratori. Io non ho un procuratore e non ho sponsor, credo però che alla fine quello che vale sono i risultati, quello che uno propone sul campo e quello che uno è davvero».
In generale però il tecnico milanese non vede nessuna diffidenza a priori verso i giovani in panchina. «Dipende sempre dai dirigenti e da come uno si pone e cosa vuole proporre». Per l’allenatore della Rhodense per migliorare una strada c’è. «Secondo me è fondamentale – conclude – aprire le porte il più possibile. Per esempio dando accesso ai corsi come l’UEFA A anche chi non ha giocato ad alto livello, ma ha passione, competenza ed esperienza in panchina».
Un problema di sistema, oltre che di scelte societarie, dunque. In alcuni Paesi, come la Germania, il luogo di origine di Jaissle e Nagelsmann, si è lavorato in maniera diversa. Nei criteri d’ammissione ai corsi il percorso da calciatore pesa decisamente di meno e le società, anche piccole e delle serie inferiori, investono nella formazione dei loro tecnici, perché i club anche nei settori giovanili devono avere un certo numero di allenatori “patentati” all’interno dei loro staff e perché la Federazione versa un contributo forfettario in proporzione al numero di Trainer formati.
Una visione diversa, che la DFB, la Federcalcio tedesca, ha modificato con una riforma datata 2021. Ha ristrutturato il sistema delle licenze e soprattutto ha ripensato i contenuti della formazione, diventati sempre più diversificati a seconda delle strade che ogni tecnico vuole intraprendere, per esempio con contenuti differenti per chi vuole seguire i settori giovanili e le prime squadre. Un percorso che punta a una formazione moderna e continua degli allenatori, sperando di plasmare una nuova generazione di Laptoptrainer, quelli che nell’ultimo decennio hanno conquistato l’Europa del calcio.