L’arresto del superlatitante Matteo Messina Denaro e ancor più la vicenda di Alfredo Cospito – l’anarchico detenuto in regime di “carcere duro” che ha da poco posto fine a uno sciopero della fame durato per oltre sei mesi – hanno riportato l’attenzione dell’opinione pubblica sull’istituto del 41-bis. A oltre trent’anni dalla sua formulazione, è utile e insieme doveroso cercare di capire attraverso l’analisi dei dati la reale efficacia di uno strumento che, da un lato all’altro della barricata, non smette di far discutere.
![Alfredo Cospito - Il 41 bis funziona davvero?](https://www.thepitchblog.it/wp-content/uploads/2023/07/alfredo-cospito-il-41-bis-funziona-davvero-thepitchblog.jpg)
Per questa ragione abbiamo deciso di produrre un’inchiesta divisa in sei appuntamenti. Grazie ad essa ripercorreremo insieme la storia del 41-bis. Ne affronteremo gli scopi espliciti e indagheremo quelli impliciti, così come le sue implicazioni in tema di diritti umani. E, infine, cercheremo di trarre le dovute conclusioni per stabilire se e quanto il “carcere duro” funzioni davvero nella lotta alle mafie.
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Nel sesto e ultimo appuntamento di questa nostra indagine proviamo a tirare le somme e a capire, attraverso l’analisi dei dati, se a 30 anni dalla sua formulazione il 41-bis rappresenta ancora uno strumento efficace nella lotta alle mafie.
Sebbene il quesito, date le sue molteplici sfaccettature, non possa presentare una risposta univoca e netta, l’opinione pubblica appare piuttosto schierata circa l’utilità del “carcere duro”. Stando ai dati raccolti da Termometro Politico lo scorso febbraio a seguito dello scoppio della vicenda Cospito, quasi tre italiani su quattro si dicono favorevoli al 41-bis, con un quarto degli intervistati che addirittura vorrebbe un ampliamento del suo utilizzo in funzione antimafiosa. Solo il 4.2%, invece, pensa sia uno strumento da abolire.
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Una posizione netta, presente anche nei risultati di un precedente rilevamento realizzato da Lavialibera nel 2020. In quell’occasione agli intervistati venne richiesto di indicare da 1 a 10 quali tra le misure antimafia percepissero come più efficaci: il “carcere duro” ottenne per distacco i voti più alti.
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Mettendo da parte il sentire comune però, dare una risposta supportata da dati certi risulta quanto mai arduo. Questo è dovuto al fatto che è praticamente impossibile stabilire una diretta correlazione tra applicazione del 41-bis e diminuzione dei fenomeni mafiosi, a prescindere da quanto vi possa essere una simile percezione tra la popolazione.
Prendendo nuovamente i dati forniti dal DAP, ad esempio, dal 2008 al 2022 il numero di detenuti in regime di “carcere duro” è aumentato a livello generale del 37%, con un incremento del 31% fra i camorristi, del 35% tra gli affiliati a Cosa Nostra e di oltre il 103% tra gli appartenenti alla ‘ndrangheta. Proprio quest’ultima però, come confermato trasversalmente da tutti i più recenti rapporti della DIA, costituisce l’organizzazione criminale in maggiore ascesa da almeno due decenni a questa parte.
In altre parole, i dati suggerirebbero che la ‘ndrangheta sia cresciuta e si sia espansa nonostante venisse combattuta aspramente (anche) attraverso l’applicazione del “carcere duro” ai suoi affiliati. Si tratta tuttavia di una conclusione affrettata e superficiale che non corrisponde alla realtà. Più semplicemente, gli ultimi anni hanno visto un aumento delle indagini e dei processi a carico della ‘ndrangheta dovuto alla sua maggiore esposizione a seguito del declino di Cosa Nostra.
Con tutti i limiti che presenta, e nonostante l’impossibilità a misurarne l’incisività, non c’è dubbio che il 41-bis rimane centrale nel contrasto alla criminalità organizzata calabrese e al resto delle cosche nostrane, come confermano i ciclici tentativi da parte dei mafiosi a ogni latitudine di far rimuovere questo speciale regime di detenzione.
Tuttavia, non poterne valutare empiricamente l’efficacia, dovrebbe farci riflettere sull’”attaccamento morboso” che gran parte dell’opinione pubblica, della politica e del movimento antimafia mostrano di avere nei confronti di questo strumento a prescindere da tutto, anche quando arriva a minare i diritti di un detenuto. Perché per combattere la mafia tutto è lecito. Perché, in fondo in fondo, un mafioso se lo merita.
Di attaccamento “morboso” parlò 3 anni fa anche l’allora direttore del DAP Cesare Basentini, che in un’intervista a Lavialibera disse: “Sono convinto dell’utilità dell’istituto, che va salvaguardato, ma non bisogna abusarne. Invece nei suoi confronti c’è spesso un attaccamento morboso, quindi sbagliato. Oggi i condannati al 41-bis ci rimangono a vita e non tutti hanno un’alta caratura criminale. Bisognerebbe essere più elastici e permettere a coloro che dimostrano di essersi ravveduti di non essere più sottoposti al regime speciale. È un meccanismo che da magistrato ho alimentato anch’io, ma da direttore del Dap mi sono reso conto che determina un paradosso: si creano liste d’attesa e la mancanza di posti impedisce di destinare al 41-bis delle persone per cui l’esigenza è reale”.
Se un tempo il prefetto fascista Cesare Mori decise di aggredire la mafia con ogni mezzo, agendo come il “più mafioso tra i mafiosi” e utilizzando la violenza invece del diritto per raggiungere i propri scopi, oggi sembra esserci una volontà simile nel portare avanti l’idea di un carcere che deve essere il più duro tra i duri. Prendendo in prestito dalle pagine de il Riformista le parole di Andrea Pugiotto – professore ordinario di Diritto Costituzionale all’Università degli Studi di Ferrara e Coordinatore del Dottorato di ricerca in Diritto Costituzionale – per quanto questa volontà possa apparire largamente diffusa e di facilissimo consenso, “non può però essere la tesi di uno Stato di diritto, dove la pena dovuta è la pena giusta, e la pena giusta è solo quella conforme alla Costituzione”.
Se è plausibile pensare che non si arriverà mai a una posizione unanime circa la legittimità del 41-bis, ciò che è in nostro potere fare è analizzare la norma nel suo complesso, attraverso un costante studio dei dati, esaltandone i punti di forza e condannandone sinceramente i limiti quando arriva a ledere i diritti dell’uomo e le libertà costituzionali di un individuo. A prescindere dai crimini che può aver commesso. Diversamente, continuando a difenderne ciecamente ogni aspetto in nome della lotta alla criminalità organizzata, agiremmo anche noi come i “più mafiosi tra i mafiosi”. E penso non esista insulto peggiore, specialmente per chi si considera tenacemente un antimafioso.