La movida madrilena degli anni ’80 e la Quinta del Buitre. La cinepresa di Almodóvar e la sensualità di Raffaella Carrà. Madrid non dorme mai, specialmente nelle (lunghe) notti al Bernabeu.
movida ‹mobℏìdħa› s. f., spagn. [part. pass. di mover «muovere», quindi «mossa, movimento»]. – 1. In Spagna, negli anni ’80 del Novecento, il clima sociale e culturale tornato vivace dopo la fine del regime franchista. 2. estens. Denominazione per lo più scherz. della vita serale e notturna di una città, con riferimento spec. a quella delle città spagnole, note per la loro animazione nelle ore tarde.
In piena notte madrilena una giovanissima prostituta, aiutata da una donna più anziana e da un uomo, dà alla luce un bambino. L’ambientazione, però, non è il reparto maternità di un ospedale. Il piccolo Victor, infatti, nasce all’interno di un autobus della compagnia di trasporti pubblici di Madrid. La donna e l’uomo in soccorso della giovane madre non sono né medici né infermieri, ma semplicemente un’altra prostituta e l’autista del bus. In giro non c’è anima viva e Madrid appare cupa, gotica, desolante. Quando il chófer si rimette alla guida per condurre madre e figlio all’ospedale più vicino, la telecamera fissa sulla notte madrilena inquadra una semplice scritta su un muro: “Libertad. Abajo el estado de escepcion!”
Ventisei anni dopo la scena sembra ripetersi con nuovi e vecchi protagonisti. Helena, compagna di Victor, sta per partorire. La coppia monta in macchina insieme al chófer Josep per raggiungere il reparto maternità di un ospedale della capitale. Siamo sotto Natale, c’è traffico, secondo Helena non è una bella idea passare dal centro di Madrid, nonostante sia oggettivamente la via più breve. Per Victor, invece, gli spagnoli saranno a casa a guardare la partita della nazionale contro Malta, quindi in giro non ci sarà quasi nessuno. Invece, ha ragione la donna. Il traffico blocca l’automobile nelle festanti e illuminate vie madrilene e il figlio di Victor, proprio come il padre, nasce, letteralmente, in mezzo alla strada. L’ambientazione, però, è totalmente antitetica rispetto alla scena iniziale ed è lo stesso Victor a spiegarlo al figlio appena nato. «Quando nacqui io non c’era un’anima viva per la strada. La gente stava chiusa in casa, morta di paura. Per fortuna, figlio mio, è già da molto tempo che in Spagna abbiamo perso la paura.»
Carne tremula esce nelle sale cinematografiche nel 1997 e il ricorso circolare della doppia nascita (quella di Victor e di suo figlio) apre e chiude la pellicola. Pedro Almodóvar vuole rappresentare un passaggio, un cambiamento o, meglio ancora, una transizione. Di fatti grazie al suo genio e alla sua spiccata sensibilità, il regista castigliano descrive due periodi storici apparentemente inconciliabili all’interno dello stesso paese, la sua Spagna. Quella franchista, cupa, impaurita, triste, isolata e anacronistica. E l’altra, quella vivace, allegra, colorata, inclusiva, che si sviluppa a partire dagli anni ’80, ed ha il suo epicentro, chiaramente, nella capitale. «Madrid nunca duerme» è lo slogan in voga in quel decennio di cambiamenti epocali. È come se per quarant’anni la Spagna avesse visto il mondo occidentale da una panoramica esterna, da lontano, senza essere coinvolta. Certamente è così da un punto di vista strettamente politico, basti pensare al refrattario coinvolgimento franchista al processo di integrazione europea. Ma, anche e soprattutto, per quanto riguarda le grandi rivoluzioni degli usi e dei costumi. La Spagna non ha vissuto il ’68, non ha conosciuto il femminismo e una terminologia come “libertà sessuale”, all’epoca, poteva apparire priva di significato. Quando la gioventù parigina scriveva sui muri dei venti arrondissment l’iconica frase «Il est interdit d’interdire!», in Spagna era proibito (quasi) tutto.
È come se negli anni ’80, quelli della movida (e no, le restrizione a causa del Covid non c’entrano niente), si fosse concentrato tutto il desiderio di cambiamento, la voglia di novità, gli impulsi e le energie di una generazione che, finalmente, si è sentita in grado di esprimersi nella sua piena e legittima libertà, dopo decenni di isolamento e restrizioni. Ma quando un fiume scavalca gli argini ed esonda, lo fa inondando qualsiasi cosa trovi lungo il cammino. La rivoluzione culturale coinvolge ogni ambito e settore. Il cinema (è proprio in quel periodo che Pedro Almodóvar comincia la sua decennale carriera), la musica (una bionda bolognese, in quell’epoca, ricopre un ruolo discretamente importante), ma anche il calcio. In quegli anni a Madrid si sviluppa una generazione di fenomeni (per giunta madrileni e madridisti) che renderà gloria e onore al Real e, soprattutto, finirà per identificarsi perfettamente con il volto della nuova Spagna. È la storia di cinque calciatori che prenderanno l’epiteto dal soprannome del leader del drappello, Emilio Butragueño. È la storia di quel grande Real Madrid. È la storia della Quinta del Buitre.
Si è giustamente scritto molto sul legame tra il franquismo e l’universo del Real Madrid. Senza dubbio el Caudillo sfruttò in maniera propagandistica le cinque Coppe di Campioni consecutive tra il ’56 e il ’60, il grande Real di Di Stefano, Gento e Puskas. La sesta Coppa di Campioni madrilena arriva nel 1966, a Bruxelles, quando i blancos sconfiggono il Partizan, altra squadra intrinsecamente legata ad un governo non democratico. Quella degli anni ’60 è una altra generazione madrilena dorata ed è l’esatta continuazione di quella del decennio precedente. Di fatto l’allenatore, Miguel Muñoz, era in campo nelle finali del ’56 e del ’57 e, in panchina, riesce ad amalgamare un gruppo di calciatori passati alla storia come gli Yé-Yé, versione castigliana del ritornello di She loves you dei Beatles. Quella generazione deve il soprannome a una copertina di Marca, dove i giocatori posano omaggiando la band inglese.
Quel Real, oltre a vincere la Coppa dalle grandi orecchie (magnifica ossessione della storia blanca) conquista cinque campionati consecutivi. Monopolizzare la penisola iberica in quegli anni non è per niente scontato, a causa della sempiterna minaccia catalana del Barcellona (che comunque resta tredici anni all’asciutto) e per via degli exploit dei cugini dell’Atletico. Ma chi riesce per lunghi anni a estromettere il magno Real dall’albo d’oro della Liga spagnola non è né il Barcellona, né l’Atletico. Infatti all’inizio degli anni ’80 l’epicentro calcistico spagnolo si sposta nei Paesi Baschi. Ai due titoli festeggiati sulle spiagge di San Sebastián, seguono, senza soluzione di continuità, due scudetti celebrati a Bilbao. In entrambi i casi a sventolare è la Ikurriña, bandiera regionale proibita nel 1976, in piena transición democratica. Per spezzare il dominio euskera serve prendere una decisione difficile. Come si è accennato, e si vedrà dettagliatamente in seguito, la storia del Real Madrid, più che una storia di cicli che iniziano e finiscono, è una storia continuativa, di eterni ritorni, di passato e presente che si mischiano costantemente. Così tocca ad Alfredo Di Stefano, simbolo delle Coppe del ’50 e da poco divenuto allenatore del club, velocizzare il processo di integrazione di un manipolo di giovani del Castilla, la seconda squadra del Real. Poco a poco, Di Stefano li fa esordire in prima squadra e, da fine conoscitore del futból, disegna e plasma la Quinta del Buitre.
Manuel Sanchís, difensore all’occorrenza mediano. Michel, guizzante ala destra. Manuel Vázquez, centrocampista con un trascorso granata. Miguel Pardeza, seconda punta, madrileno d’adozione e andaluso di nascita (come Sergio Ramos). E poi lui, Emilio Butragueño, el Buitre, l’avvoltoio, il più forte di tutti. La Quinta al completo conquista sedici titoli, tra cui sei campionati spagnoli (di cui cinque consecutivi) e due Coppe Uefa, oltre ad altri trofei nazionali. Dal 1985 al 1990 è un dominio assoluto all’interno di una penisola iberica che, finalmente, comincia a muoversi alla stessa velocità degli altri paesi.
Non sono solamente i titoli vinti a rendere gloria a questa generazione dorata. Infatti è di vitale importanza comprendere il dove e il come questi trofei vengono conquistati. Quella degli anni ’80 è una Spagna (e una Madrid) che ha un’altra marcia. L’ingresso all’interno della Comunità Europea avviene il primo gennaio 1986, dopo gli anni del buio isolamento franquista. È un paese in totale evoluzione.
In questa rivoluzione culturale e politica, in questo drastico cambiamento degli usi, costumi e delle tradizioni, un ruolo importante lo gioca colei che anni dopo verrà insignita, da sua maestà Felipe VI, del titolo di Dama “al Orden del Mérito Civil”. Per un suo recente compleanno, El País ha titolato: “Raffaella Carrà, el mito cumple 75 años.” Icona di libertà assoluta, Raffaella è tutt’ora un mito per varie generazioni di spagnoli. Lei stessa ricorda la sua prima trasferta madrilena, in piena transición democratica. Era un 6 gennaio, Los Reyes Magos, e l’inverno a Madrid sa essere particolarmente rigido. Eppure arrivata sulla Gran Vía si accorge di qualcosa. «Era notte fonda, uno spettacolo incredibile. Tutti i bar pieni, i tavoli fuori presi d’assalto. La strada era invasa di gente con un’incredibile voglia di vivere» ha rivelato Raffaella in un’intervista al Corriere.
Madrid ribolle di passione e trova in Raffaella un idolo in cui identificarsi. Ma anche il calcio, come si è detto, ricopre un ruolo fondamentale. Il Real Madrid della Quinta del Buitre gioca un calcio differente, rapido, veloce, spumeggiante, tecnico e imprevedibile. Qualcuno sostiene che la Spagna calcistica del XXI secolo sia figlia della rivoluzione messa in atto da quella generazione madrilena. Difficile dire se sia realmente così. Ciò che conta è che quella squadra si diverte e sa far divertire. Come è detto, è fondamentale comprendere il come sa vincere, e il dove riesce a vincere. Nella Madrid della movida, senz’altro. Ma quando si parla del Real, la casa, nel dettaglio, è una sola ed è nel quartiere Chamartín. Sono proprio le vittorie ottenute al Santiago Bernabeu che hanno fatto entrare quella generazione nel mito.
Oggi, quando si parla del tempio del Real Madrid sono due le grosse citazioni entrate prepotentemente nel linguaggio calcistico comune. La prima è del numero 7 di quel Real degli anni ’80, Juan Gomez Gonzalez, per tutti Juanito, morto in un tragico incidente stradale nel 1992 e ancora oggi omaggiato continuamente dagli Ultras Sur, la curva blanca. Fu lui il primo a dire che «Novanta minuti al Santiago Bernabueu sono molto lunghi». La seconda, invece, non è né di un calciatore, né di un allenatore o di un qualsiasi altro stipendiato dal mondo del pallone. Infatti, il primo a parlare di Miedo escenico (paura scenica) fu un Premio Nobel per la letteratura, niente meno che Gabriel Garcia Marquez. Concetto, quello del Miedo escenico, poi ripreso e traslato al tempio madridista da Jorge Valdano, proprio nel 1986. L’annata, infatti, è fondamentale, poiché coincide con la seconda Coppa Uefa consecutiva di quel Real Madrid. E, come si è già detto, il dove e il come in questa storia sono fondamentali.
La Quinta del Buitre, infatti, viene ricordata per le rimonte impossibili compiute all’interno delle mura amiche, durante le cavalcate europee. La prima a farne le spese è il Rijeka, squadra di confine. Nella dannunziana Fiume il Real soccombe 3-1, ma il ritorno al Bernabeu i blancos promettono battaglia. È necessario un rigore di Juanito, dopo oltre un’ora, a scacciare la paura. Santillana prima e Valdano poi inchiodano il punteggio sul 3-0. Il Madrid va agli ottavi e il sorteggio gli mette davanti una delle squadre più forti d’Europa, l’Anderlecht due volte finalista (una vinta e una persa) nelle ultime due edizioni di Coppa UEFA. Il club di Bruxelles compone l’ossatura della grande nazionale belga che ai mondiali messicani del 1986 viene eliminata solamente in semifinale da una doppietta di Maradona (che se nom ci fosse stato il turno precedente contro l’Inghilterra, la semifinale con i belgi sarebbe stata la sua miglior prestazione di sempre). Tra le mura amiche l’Anderlecht è implacabile: 3-0 secco e Real Madrid umiliato. C’è il ritorno, però. Qui bisogna riprendere in mano Gabriel Garcia Marquez e i pensieri di Aureliano Buendía. Quel giorno di dicembre al Bernabeu il plotone d’esecuzione è vestito di bianco e non fa prigionieri. Finisce 6-1 e alla fine dell’annata quel Real alza al cielo la prima Coppa Uefa della sua storia.
L’anno successivo la storia si ripete in maniera inesorabile. Il primo scalpo delle rimonte europee della stagione 1985-86 è poco nobile. Si tratta dell’AEK che ad Atene riesce a vincere 1-0, ma a Chamartín ne prende cinque in poco tempo. Bisogna attendere gli ottavi di finali per il vero capolavoro blanco. In Renania il Borussia Mönchengladbach va addirittura di manita, un 5-1 che odora di sentenza. Al ritorno al Bernabeu, a un quarto d’ora dalla fine il Real conduce soltanto per due gol di scarto. È ancora troppo poco. Ma si sa, d’altronde, che novanta minuti al Bernabeu sono più lunghi che da altre parti. Doppietta di Santillana al 77′ e all’89’, pratica tedesca archiviata e via verso la seconda Coppa Uefa consecutiva.
A livello di blasone dell’avversario, però, sono due le rimonte di quel Real Madrid rimaste nell’immaginario collettivo, specialmente per noi italiani. Sia nel 1985 che nel 1986 una delle due semifinali di UEFA è Inter – Real Madrid. L’andata, in entrambi i casi, è a San Siro. Il primo anno l’Inter si impone 2-0, il secondo 3-1. Basterà? Figurarsi. La prima rimonta blanca contro i nerazzurri si tinge di un altro colore, il giallo. Alla mezz’ora Beppe Bergomi si accascia a terra, forse colpito da una biglia piovuta dalle tribune del Bernabeu. La partita va avanti e il Real riesce a rimontare imponendosi 3-0. A nulla vale il reclamo ufficiale dell’avvocato Peppino Prisco e il risultato viene ufficialmente omologato. L’anno successivo i novanta minuti al Bernabeu (come sempre molto lunghi) finiscono 3-1. Sono necessari i supplementari e un’altra doppietta di Santillana spedisce nuovamente il Real in finale di Uefa. Per gli interisti, la doppia rimonta subita in meno di un anno suona come una enorme beffa, una doccia gelata che, come vedremo, rimarrà per sempre incastonata nei ricordi amari di più di un tifoso. È l’Inter di Zenga, Brady, Altobelli e di un anziano Marco Tardelli, che in quel di Madrid ha vissuto senz’altro nottate migliori.
Eppure il Real della Quinta del Buitre, nella sua leggenda, continua a convivere con una macchia: la mancata conquista della Coppa di Campioni. In particolare quella del 1988 sembra alla portata, ma quel Real non riesce ad avere la meglio, in semifinale, del PSV Eindhoven di “mago” Guus Hiddink. Un doppio pareggio: 1-1 e 0-0. Questa volta il miedo escenico non sortisce nessun effetto sulle truppe nemiche.
Il 1988 è l’anno in cui, finalmente, Pedro Almodóvar si fa conoscere a livello internazionale narrando una storia che mescola amiche, tecnici telefonici, terroristi e poliziotti: in sintesi il regista racconta di Donne sull’orlo di una crisi di nervi. Tra gli spettatori di quella pellicola c’è anche il detective Pepe Carvalho, all’epoca impegnato in un caso riguardante il nuovo centravanti straniero appena acquistato dal Barcellona. Tra una tappa alla Boqueria e una passeggiata sulle ramblas, il detective più famoso del Mediterraneo si rende conto che la storia del centravanti altro non è che un bizzarro scambio di persona. In compenso, però, è costretto a seppellire il suo amico Bromuro (un complottista pre-social convinto che il governo democratico spagnolo aggiungesse, per l’appunto, del bromuro nelle acque delle fontane). L’agnostico Pepe esaudisce il desiderio dell’amico e posiziona sulla tomba le cinco rosas della falange. Perché il franquismo potrebbe anche essere morto, ma sulla sua concreta ed effettiva sepoltura, ancora oggi, la questione è decisamente più complessa.
Come si è detto la storia del Real Madrid non è una storia di cicli, ma di un presente e un passato che si fondono. Nella sua interezza alla Quinta manca la Coppa di Campioni, ma uno di loro, da solo, riesce a vincerla. Infatti Manuel Sanchís (terzo calciatore con più presenze nella storia del Real, dopo Raùl e Casillas) in una notte olandese del 1998 alza al cielo quell’agognata coppa, divenuta ormai Champions League. Ma d’altronde non sarebbe potuto toccare che a lui, Manuel Sanchís Hontiyuelo, nato madrileno e figlio d’arte. Già, perché suo padre Manuel Sanchís Martinez (nato valenciano e madridista d’adozione) ha già in bacheca la Coppa del ’66, quella vinta dalla generazione degli Yé-Yé. Dalla parti di Chamartín, il tempo, altro non è che un eterno ritorno.
Quella doppia remuntada subita dall’Inter non è mai stata del tutto digerita dall’universo nerazzurro. Un giovane interista di Pavia, figlio di una coppia di fiorai, all’epoca è poco più che adolescente. In seguito a una bocciatura in terza liceo, sui banchi di scuola conosce un ragazzo con cui riunisce una inusuale, ma estremamente efficace, band musicale. Ottenuti gloria, fama e successo a inizio anni ’90, la coppia decide di raccontare, in chiave nostalgica, la decade precedente. Certamente quelli sono gli anni di Happy Days e di Ralph Malph e dei Roy Rogers come jeans. Gli anni delle immense compagnie e del motorino sempre in due. Gli anni di qualunque cosa fai e del tranquillo siam qui noi. Ma quegli anni, come si evince dall’inizio di uno dei ritornelli più cantati di sempre, sono, anche e soprattutto, “Gli anni d’oro del Grande Real“. Di quel Grande Real.