Nel maggio del 2013, in risposta alla decisione del governo turco di abbattere alcuni alberi del parco urbano di piazza Taksim per avviare la ricostruzione in stile ottomano di una ex caserma da utilizzare come centro commerciale, nasceva il movimento OccupyGezi. Gezi Park, uno dei pochi polmoni verdi della città, si trova (tuttora) a pochi metri da piazza Taksim, il cuore pulsante della moderna Istanbul. Iniziato come sit-in in difesa degli alberi, in seguito agli attacchi della polizia verso i manifestanti il movimento crebbe numericamente e si concentrò su istanze politiche più generali, arrivando a portare in piazza centinaia di migliaia di persone in tutto il paese.

Le proteste dell’estate 2013 in Piazza Taksim (foto il manifesto)

Fu una sollevazione di massa senza precedenti, violentemente repressa dalle forze di polizia turche (ci furono 9 morti, oltre 8000 feriti e 2000 arresti in circa 3 mesi di proteste), e che fu in grado di riunire tutte le principali componenti della società civile opposte alla politica di Erdoğan. Agli ambientalisti si unirono liberali, progressisti ma anche anarchici, intellettuali di sinistra e comunità LGBTQ+. Anche i tifosi della squadra di calcio del Beşiktaş si ritagliarono un ruolo importante in piazza. 

Il termine çapulcu, “saccheggiatori”, utilizzato da Erdoğan per descrivere i manifestanti e giustificare la violenza della repressione delle forze di polizia, grazie ai social media divenne presto popolare tra i manifestanti e usato scherzosamente come sinonimo di “persona che usa la propria creatività per chiedere nuovi diritti e libertà democratiche”. Siamo dopotutto nel pieno del periodo delle “primavere arabe”, e il “sultano” non può correre il rischio di capitolare come altri dittatori del Medio oriente. Le proteste, che per la verità furono tendenzialmente pacifiche, avevano come bersaglio le politiche restrittive messe in campo da Erdogan (nei campi della libertà di espressione, stampa, riunione), la riforma scolastica, il tentativo di proibire nuovamente l’aborto e la vocazione populista del suo partito. Proprio la reazione sproporzionata delle forze dell’ordine contribuì ad aumentare la risonanza nazionale e internazionale delle proteste.

Il 2013 e le proteste di Gezi Park hanno rappresentato un punto di svolta nella presidenza di Erdoğan, e hanno aperto una fase di maggiore concentrazione del potere nelle mani del presidente e di maggiore autoritarismo. Se, infatti, i primi anni dieci anni di vita dell’AKP non furono certo contrassegnati da una visione liberale e di completa apertura alle minoranze, gli anni successivi al movimento di Gezi Park e al tentato golpe del 2016 hanno visto l’avvio di una deriva dispotica in cui si assiste a un deterioramento delle libertà civili, arresti arbitrari e controllo da parte del presidente su gran parte dei principali organi dello Stato. 

Membri del partito Refah in una foto del 1994, quando il loro candidato, il 40enne Recep Tayyip Erdoğan, divenne sindaco di Istanbul – Nordic Monitor

Dopo essere stato sindaco di Istanbul tra il 1994 e il 1998, nel 2001 Erdoğan fondò l’AKP, il partito Giustizia e Sviluppo, che dominò le elezioni parlamentari portando il “nuovo sultano” ad occupare la carica di primo ministro tra il 2003 e il 2014. L’AKP è fondamentalmente un partito conservatore di ispirazione religiosa, che ha ottenuto fin da subito un grande successo nonostante la parziale inesperienza in politica di alto livello di una parte dei suoi membri.

L’arrivo al potere di un partito come l’AKP fu in parte favorito dalla crisi economica del 2001, che aprì le porte della scena politica al nuovo movimento di ispirazione religiosa in un paese che fin dalla sua fondazione aveva fatto del laicismo uno dei cardini della propria costituzione. Vengono così presentati ambiziosi pacchetti di riforme per rilanciare l’economia turca, fortemente incentivati dal FMI in un periodo in cui, come mai prima d’ora, Istanbul sembra avvicinarsi al Vecchio Continente. Nel 1999 la Turchia diventa ufficialmente paese candidato all’adesione all’Ue, una spinta europeista bruscamente interrotta con l’allargamento del 2004, a causa dell’ingresso dell’odiata Cipro. All’abolizione della pena di morte si affiancò il tentativo di dare una nuova impalcatura alle istituzioni turche attraverso la marginalizzazione del ruolo dei militari, che negli anni avevano ricoperto il ruolo dei garanti del kemalismo intervenendo rovesciando i governi nei casi di violazione del principio di laicità dello Stato. I militari, infatti, sono intervenuti diverse volte nella vita politica della Repubblica con i colpi di Stato del 1960, 1971, 1980. Uno dei provvedimenti più emblematici di questi primi anni di “era Erdoğan” fu la rimozione del divieto di indossare il velo. Il carattere stesso del nuovo partito di governo fece sì che l’opposizione interna fu fin da subito molto forte e marcata, nonostante i ripetuti successi elettorali degli anni ’00 e ’10. Il consenso dell’AKP ha tradizionalmente il suo zoccolo duro nell’Anatolia e nelle élite economiche, grazie alle riforme che rimettono in piedi l’economia e al processo di riforma che dona maggiore importanza alle esportazioni.

In questa prima fase è di grande importanza l’alleanza tra Erdoğan e il predicatore Fetullah Gulen e la sua comunità Hizmet. Il movimento di Gulen rappresenta il deep state della società turca, e la creazione di una solida rete di contatti nelle scuole, nelle università e nelle istituzioni contribuì alla riduzione del peso politico delle forze armate, uno dei principali obiettivi del premier turco in questa fase. Funzionale a questo scopo fu anche l’ampio ricorso ai processi politici verso le alte sfere militari. Il controllo sulla magistratura e sui militari rappresenta senza dubbio un filo conduttore della politica di Erdoğan.

Recep Tayyip Erdoğan e Fethullah Gülen – Qcodemag

Dopo il 2013, si assiste perciò a una progressiva svolta autoritaria, che si è manifestata inizialmente attraverso l’adozione di una prima modifica costituzionale che stabilisce l’elezione a suffragio universale del presidente della repubblica, con lo stesso Erdoğan che nel 2014 è arrivato a ricoprire questa carica. La deriva autoritaria (invisa a Gülen e che rappresentò uno dei motivi della rottura tra i due) è stata sicuramente favorita dal modificarsi della congiuntura economica internazionale che ha messo in crisi il travolgente processo di crescita messo in atto a partire dal 2002, che si basava su consumi e esportazioni. Il deficit nella bilancia dei pagamenti, tradizionale caratteristica dell’economia turca, è diventato sempre più consistente e si assiste ad un crollo della valuta e ad un preoccupante aumento della disoccupazione. Tutte queste crepe nel processo di crescita della nazione turca hanno messo in parziale discussione l’ampio consenso del presidente turco, che ha così provato a mettere “sotto chiave” il proprio potere concentrandolo nelle proprie mani utilizzando vie (formalmente) costituzionali. 

Nel 2015, mentre il dibattito sui progetti di instaurare il presidenzialismo nel paese accende l’opinione pubblica, il partito di Erdoğan ha subito una prima parziale sconfitta elettorale, pur mantenendo il controllo del Parlamento. Il dato senza dubbio più rilevante della tornata elettorale è l’ingresso in Parlamento del partito curdo HDP (con il 13% dei consensi). La questione curda riveste un ruolo centrale nel panorama politico turco, e ad un atteggiamento di parziale apertura adottato nei primi anni da parte dell’AKP ha fatto seguito, con lo scoppio della crisi siriana e il rafforzamento delle comunità curde nel Rojava, la completa rottura del dialogo col PKK e una guerra totale che si è manifestata in tutta la sua crudeltà nelle varie operazioni militari avviate dal governo turco (Scudo dell’Eufrate nell’agosto 2016, Ramo d’Ulivo nel gennaio 2018 e Sorgente di Pace nell’ottobre 2019). 

L’indebolimento dei consensi verso l’AKP, unito alla rottura totale con Gulen, ha portato Erdogan ad aprire un dialogo col movimento nazionalista dell’MHP. La forte instabilità interna e internazionale consente al presidente di presentarsi come l’uomo forte in grado di risollevare le sorti del paese, e si è così arrivati al 2016 e al tentativo di golpe orchestrato dall’ex alleato Fetullah Gulen, e quantomeno strumentalizzato dal presidente dopo lo scampato pericolo. Erdogan non si è lasciato sfuggire l’occasione di imprimere, in reazione al colpo di Stato, un’ulteriore svolta autoritaria alla propria presidenza, inaugurando una durissima campagna di epurazioni e arresti verso gli oppositori politici.

Contropiano

Il 16 aprile 2017, la Turchia diventa così una repubblica presidenziale, sotto lo stato di emergenza nazionale, con un referendum contestatissimo (con accuse di brogli) che amplia i poteri del presidente della Repubblica e in particolare il suo controllo sul potere giudiziario. Attraverso l’adozione di vari decreti viene inoltre esteso il controllo presidenziale su banche, esercito, università e luoghi di interesse culturale.

Nonostante i tentativi (riusciti) di aumentare la concentrazione del potere nelle proprie mani, negli ultimi anni appare evidente come la situazione economica non favorevole e i dissidi interni abbiano influito negativamente sul consenso di Erdoğan e del suo partito. Ne è la prova lampante il risultato delle elezioni amministrative del 2019, che hanno decretato la vittoria di Ekrem İmamoğlu, candidato dell’opposizione. Per governare, inoltre, Erdoğan ha ora bisogno del sostegno dei nazionalisti dell’MHP. 

L’analisi e il commento dei recenti avvenimenti che hanno come oggetto la decisione di riconvertire in moschea la maestosa basilica di Santa Sofia (dopo che nel 1935 il presidente turco Mustafa Kemal Atatürk l’aveva trasformata in museo) vanno senza dubbio letti all’interno di questo preciso contesto storico. Il 9 luglio scorso il consiglio di Stato ha dato l’ok alla riconversione di Santa Sofia in moschea, facendo venire meno uno dei simboli dell’inclusività di Istanbul. Si tratta soprattutto di una grande vittoria identitaria per Erdoğan, che si riappropria di un simbolo del passato cercando di strumentalizzarlo per creare una nuova comune appartenenza. Il patrimonio culturale, quindi, viene utilizzato per proporre una particolare visione politica e sociale. L’Unesco ha duramente condannato la decisione, ricordando come la fusione di elementi cristiani e musulmani costituisca la peculiarità della basilica, e facendo notare che l’iscrizione di un sito nel registro dei Patrimoni dell’Umanità comporti una serie di obblighi per lo Stato. L’edificio non sarà totalmente chiuso al pubblico, ma durante le ore di preghiera i mosaici risalenti all’epoca cristiana saranno coperti.

L’interno di Santa Sofia. L’edificio, costruito nel 537 d.c. per ordine dell’imperatore bizantino Giustiniano, fu una cattedrale cristiana(cattolica e poi, soprattutto, ortodossa) e casa della chiesa d’Oriente fino al 1453. Divenne moschea nel 1453 dopo la conquista di Costantinopoli da parte del sultano Mehmet II. Rimase moschea fino al 1931, anno in cui fu sconsacrata. Nel 1935 è diventata un museo – fonte Wikimedia

Il presidente turco persegue da anni il proprio sogno “neo-ottomano”, e fin dal suo arrivo al potere si sono susseguiti passi che vanno nella direzione di una nuova islamizzazione della società turca, in completa controtendenza con quanto avvenuto dopo la fondazione della repubblica turca. Risale al 1994 un’intervista in cui l’allora neo-sindaco Istanbul dichiara apertamente di volersi impegnare nella rei-islamizzazione della città e in una futura riapertura al culto del monumento più iconico della Turchia. La scelta del 24 luglio, anniversario del trattato di Losanna che nel 1923 sancì la fine dell’Impero Ottomano, per la prima preghiera collettiva a Santa Sofia non è certamente casuale. La volontà di Erdoğan è quella di (ri)proporre e la Turchia come guida del mondo islamico, sfidando apertamente l’asse costituito dalle Monarchie del Golfo e dall’Egitto di Al Sisi e cercando di occupare una posizione di forza nei confronti di questi ultimi. Per rivendicare il proprio ruolo di guida del mondo islamico, tra l’altro, il presidente turco non ha fatto mancare un riferimento ad un’altra celebre moschea, affermando che “la liberazione di Santa Sofia è foriera della liberazione di al-Aqsa”. Una decisione, quindi, che ha anche e soprattutto ricadute sul fronte geopolitico, e che va letta senz’altra alla luce delle ultime mosse di Erdoğan in Libia e della retorica che ha adottato per giustificare il proprio rinnovato interventismo nei contesti internazionali.

Sul piano interno, invece, ciò che traspare dalla decisione di riconvertire Santa Sofia è il tentativo di cancellare o, quanto meno, mettere in discussione, l’eredità storica di Ataturk e le fondamenta stesse su cui poggia l’intero impianto della nazione turca. Il recupero delle radici islamiche della Turchia e la decisione di proporle come nuovo pilastro della società, abbandonando ogni apertura al multiculturalismo, rappresentano una sconfessione totale del processo di creazione nazionale della Repubblica Turca, nel quale, in aperta contraddizione col passato ottomano, la laicità della Stato ha costituito il principale carattere distintivo.

Il tempismo della riconversione rende però inevitabili delle considerazioni riguardanti l’attuale congiuntura economica (che, evidentemente, il Covid-19 ha contribuito a peggiorare) e l’attuale consenso di cui l’AKP e l’alleato nazionalista di governo godono al momento. Lo stesso Erdoğan, in occasione delle elezioni amministrative che si sono tenute poco più di un anno fa, aveva abbassato i toni nei confronti dello slogan “riapriamo Santa Sofia”. La decisione, quasi improvvisa, di procedere alla nuova trasformazione in moschea deriva in parte anche da semplici considerazioni riguardanti il consenso interno, e una mossa del genere può avere come effetto un ricompattamento dell’elettorato e di quelle fasce de popolazione che negli ultimi mesi e anni si sono spostate dall’AKP verso altri (in certi casi nuovi) partiti. Emblematico, su tutti, il caso del Partito Futuro fondato dall’ex premier Davutoğlu. Secondo l’Economist lo scopo della riconversione è proprio preparare il terreno per le elezioni che si terranno tra due anni. Erdoğan è riuscito, inoltre, a paralizzare l’azione delle opposizioni, che hanno boicottato la riapertura della moschea ma dispongono di margini d’azione decisamente ridotti per la paura di essere etichettate come anti-musulmane. Poche ore prima della preghiera di venerdì 24 luglio a Santa Sofia, inoltre, il governo turco ha annunciato l’adozione di un nuovo provvedimento anti-social con cui sarà possibile mettere al bando gli account che non rispetteranno le nuove misure.

Erdogan in preghiera a Santa Sofia lo scorso venerdì

La mossa di Erdoğan ha conseguenze complesse e di non facile lettura sul mondo musulmano. Se, come detto, l’idea è quella di restituire alla Turchia il ruolo di guida del mondo islamico, è altresì vero che la frattura già esistente tra l’Islam politico (incarnato da Turchia, Qatar e Fratellanza Musulmana) e stati del Golfo verrà ulteriormente amplificata dalla vicenda di Santa Sofia: Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti hanno apertamente accusato la Turchia di sfruttare l’Islam per i propri interessi e per recuperare consenso. Tuttavia, forse in maniera inaspettata, il Mufti dell’Oman si è apertamente schierato a sostegno di Erdoğan, mentre le autorità libiche e iraniane hanno applaudito la scelta turca definendola “coraggiosa”. 

Se l’inevitabile condanna da parte della Grecia della mossa di Erdoğan non costituisce una grossa preoccupazione sul piano delle relazioni internazionali, è altresì vero che i recenti avvenimenti rischiano di amplificare ulteriormente l’isolamento internazionale in cui si trova la Turchia. L’imminenza delle elezioni americane obbliga Trump a considerazioni elettorali ben precise e quindi ad una ferma condanna della riconversione, mentre i rapporti con l’Unione Europea sono già da tempo in una fase di netto deterioramento. La permanenza al potere di una figura forte come Erdoğan e la posizione strategica nel Mediterraneo orientale garantiscono alla Turchia una certa agilità sul piano internazionale, ma le prospettive sul medio-lungo periodo obbligano il governo turco a considerazioni ben precise. Si fa strada la necessità di definire con chiarezza il proprio ruolo all’interno dello scacchiere internazionale, sia con riferimento al fronte mediorientale che che a quello europeo e occidentale. Al momento, tra l’altro, non sembra esserci nessuno in grado di prendere il posto e l’eredità del “sultano”, questo almeno è quello che Erdogan cerca di far trasparire all’interno e, soprattutto, all’estero.

Gezi Park e l’euforia per un nuovo modello di Stato più inclusivo sembrano oggi lontani anni luce, e da lì a poco il presidente ha dato sfogo alla propria sete di potere facendo pagare al paese un prezzo molto alto in termini economici e anche di arresti, libertà individuali e rispetto dei diritti umani.