«Irhal! Vattene!». La diagnosi dei medici è impietosa. Nel luglio 2010, a pochi mesi dalle elezioni, fonti dell’intelligence americano avevano divulgato ai media la notizia che una visita concordata all’ultimo in Francia non fosse solo diplomatica, ma legata a questioni di salute e piuttosto gravi. La stampa interna si era affrettata a smentire, ma le voci sono ritornate a farsi sentire dopo le dimissioni a febbraio del 2011. «Ad Allah apparteniamo e ad Allah ritorneremo» amava ripetere ai suoi due figli Alā e Gamāl. «Ci vuole tempo per morire». Difficilmente Fidel Castro si è intrattenuto a parlare coi suoi otto pargoli – e contiamo solo quelli ufficialmente riconosciuti – eppure anche il líder máximo dopo decenni nell’aprile di quel 2011 si è dimesso, lui che era afflitto dalla stessa malattia del raiss: cancro all’apparato digerente.
La sua cartella clinica lo consiglierebbe, e i pochi della sua cerchia che non l’hanno scaricato si fanno espliciti, proponendogli la fuga all’estero. Lui rifiuta: «Voglio morire nel paese dove sono nato». Così il 24 maggio 2011 nell’aula dell’Alta Corte del Cairo fa il suo ingresso l’imputato. È su una lettiga, visto che si è rotto il femore cadendo in casa, gli occhiali da sole cercano di coprire un’espressione inebetita e depressa. A leggere i giornali le sue condizioni fisiche sarebbero precipitate nei giorni successivi all’arresto, sarebbe caduto in depressione al punto da rifiutare i farmaci e rimarrebbe sveglio in uno stato d’incoscienza. Quello che è certo è che nemmeno un mese prima è stato sottoposto a un delicato intervento cardiaco, dopo un infarto. Un’entrata in tribunale decisamente poco trionfale per l’uomo che per trent’anni si è fatto chiamare “al Fara’un”: Muhammad Hosni El Sayed Mubarak. Quel giorno di maggio al Cairo casomai va a processo la mummia di quello che dal 1981 al 2011 è stato il presidente del paese delle piramidi.
«Irhal! Vattene!» deve averlo pensato anche il 5 giugno 1967. Alle 7 e 15, l’intera aviazione israeliana si alza in volo dirigendosi a nord verso il mare, orario e rotta fanno pensare a una delle normali esercitazioni dei giorni precedenti. E’ l’inizio dell’Operazione Focus (Mivtza Moked nella lingua della Torah e di David Grossman), in tre ore l’aviazione egiziana cessa d’esistere. Quasi 500 aerei da guerra – l’80% prima ancora di alzarsi in volo – vengono distrutti. Compreso quello del comandante di squadriglia Hosni Mubarak, abbattuto sul suolo della base aerea del Cairo Ovest.
In caserma gli ufficiali della capitale irridono il suo accento rurale, lo chiamano “La vache qui rit, la mucca che ride” per una presunta somiglianza con la piccola mucca rossa sulla scatola di un formaggio francese. Il figlio di un piccolo funzionario di provincia sorride alle avversità. Come un altro figlio del Delta del Nilo, Anwar al-Sadat, ha trovato il suo percorso di riscatto nell’esercito. Quando si diploma all’Accademia Militare nel 1950 re Farouk è ancora sul trono e l’aeronautica egiziana vola con gli Spitfire inglesi. Diventa pilota da combattimento nel 1952, quando la rivolta degli ufficiali rovescia la monarchia portando al potere Nasser. Con la Crisi di Suez del 1956 cambia tipologia di aereo. Il paese, invaso dagli israeliani con l’appoggio di Francia e Gran Bretagna, si avvicina cautamente al blocco comunista. Il non-allineamento di Nasser ha in mente una politica estera alternativa alla logica bipolare delle Guerra fredda, in grado di sfruttare i favori dei due blocchi tenendosi a distanza. Nel 1956 il comandante partecipa alla Conferenza di Bandung, nel frattempo l’istruttore Mubarak frequenta un corso di aggiornamento in Urss.
Dopo il disastro della guerra dei Sei giorni del 1967, arriva il riscatto – più psicologico che militare – della guerra dello Yom Kippur del 1973. Nasser è stato ucciso ed al suo posto nel 1970 va al potere il corregionale Sadat, di cui in breve tempo Mubarak diventa il delfino. Nel 1972 è comandante delle Forze Aeree, assurgendo ad eroe nazionale con la guerra dell’anno dopo in cui attacco oltre il canale di Suez distrugge quasi tutte le posizioni israeliane. Il 6 ottobre, mentre gli israeliani celebrano lo Yom Kippur, la rinata areonautica egiziana compie l’Attraversamento (al-‘obour, nella lingua del Corano e di Nagib Mahfuz). Sadat lo promuove a Maresciallo dell’Aria e nell’aprile 1975 a vicepresidente del paese. Senza esperienza politica e base popolare, ma con il decisivo appoggio dei militari, Mubarak è un braccio destro silenzioso, totalmente fedele, inviato da Sadat nel mondo arabo per convincere re e presidenti ad avallare la pace di Camp David con Israele del 1978.
«Irhal! Vattene!» ma non riesce a muovere un passo il 6 ottobre 1981.
«Sono venuto da voi per costruire la pace con passo fermo», il 19 novembre 1977 Sadat compie un gesto senza precedenti, recandosi in visita di pace a Gerusalemme per stringere la mano al presidente israeliano Begin. Il suo discorso viene ascoltato con commozione dalla Knesset. Ma il riconoscimento dello stato ebraico in cambio dei territori perduti nel 1967 è una nakba, un cataclisma che molti nel mondo arabo non tollerano. Come l’estremista islamico Khaled Istambouli, che durante una parata militare quattro anni dopo uccide il presidente e ferì lievemente il suo vice. Una figlia di Sadat lo avrebbe accusato di aver guidato il complotto. Ma fu un’accusa ingiusta: Mubarak rimase federe anche dopo la morte del suo mentore, continuandone le aperture economiche e la pace.
I trent’anni di potere da raìss sono piuttosto anonimi per essere quelli di un faraone. Senza guerre per firmare la pace come Sadat; le sue riforme economiche non rivoluzionano il paese come quelle di Nasser. Nei suoi tre decenni di presidenza il paese delle piramidi cessa di essere il faro del mondo arabo, per precipitare nella stagnazione sociale e politica. In un quadro regionale sempre più insicuro, il paese da 100 milioni di abitanti ha goduto di una straordinaria stabilità interna, per alcuni osservatori statica, moribonda. Eredita un regime profondamente impopolare, sostenuto dall’odiata polizia segreta con cui reprime prima i mandanti dell’omicidio del suo predecessore e poi i Fratelli musulmani, un’organizzazione islamista internazionale fondata in Egitto nel 1928, tecnicamente illegale ma che godeva di una rappresentanza parlamentare. Le presunte aperture alla “democratizzazione” del paese, nel frattempo rimanevano carta straccia. Nel 2005 ha annunciato elezioni parlamentari pluripartitiche e un elezione presidenziale aperta: il risultato di entrambe è stato un mix di farsa e tragedia.
«Irhal. Siamo tutti uniti con una sola richiesta: vattene!».
Irhal è una canzone di Ramy Essam, il bardo di piazza Tahrir, composta durante le proteste della Primavera araba. Il 17 dicembre 2010 un ambulante tunisino, Mohamed Bouazizi, si dà fuoco in seguito a maltrattamenti subiti da parte della polizia. Il suo gesto estremo il cui gesto innesca una serie di proteste ed agitazioni che coinvolgono tutto il Medio oriente. Il faraone è il primo capo di stato a venire destituito dalle proteste: i generali lo hanno sacrificato in cambio del mantenimento del loro potere. Anzi di un rafforzamento: la breve presidenza dei fratelli musulmani con Mohammed Morsi è stato un incidente di percorso presto corretto con il golpe di al-Sisi. Dopo essere stato condannato all’ergastolo, nel 2013 la Corte di Cassazione aveva ordinato un nuovo processo, cancellando definitivamente la pena nel 2017.
Anche la stagione di speranza per un rinnovamento della regione sembra essere definitivamente tramontata. Dopo la breve euforia per l’abbandono tra il 2011 e il 2012 di Ben Ali in Tunisia, Gheddafi in Libia e Saleh in Yemen, è seguita una lunga fase di instabilità tutt’ora in corso nell’intero scacchiere mediorientale. L’unico successo duraturo è stato in Tunisia; se l’Egitto è tornato sotto il controllo di un governo autoritario, Yemen, Siria e Libia sono tormentate dalle guerre civili e dagli interventi militari stranieri. Le tensioni tra i diversi stati sembrano essersi aggravate, in una regione tormentata da conflitti decennali come quello arabo-israeliano, rivalità tra potenze regionali – Turchia, Iran, Arabia Saudita, Israele – e globali – alla storica onnipresenza americana, si è aggiunta l’ingerenza russa nella regione. Ad alimentare l’incendio di tutti questi fattori di crisi, soffia anche il fuoco della crisi migratoria dovuta agli sconvolgimenti del Medio Oriente dopo il 2001: decine di milioni di persone hanno abbandonato Afghanistan, Iraq, Libano, Palestina, Libia e Siria. C’è un mondo a sud dell’Europa che non sembra conoscere il significato della parola “pace”.
Se n’è andato.
Le voci su una presunta malattia del Faraone sono definitamente confermate dopo la sua caduta. Ma Mubarak è morto da uomo libero. Condannato all’ergastolo nel 2012, l’anno dopo un colpo di stato dei militari ha messo al potere il generale Abdel Fattah al-Sisi, e la Corte di Cassazione ha ordinato un nuovo processo per il raiss, cancellando definitivamente la pena nel 2017. Nel 2018 i suoi figli furono arrestati per presunta manipolazione del mercato azionario, ma assolti pochi giorni prima della sua morte.
Hosni Mubarak è morto rimpianto anche da chi lo aveva detestato. Per quanto illiberali fossero stati gli oltre tre decenni del suo potere, nulla è paragonabile alla sanguinosa brutalità per ogni dissenso dell’attuale regime. Al-Sisi ha trasformato Mubarak in un faraone dal volto umano. Paradossalmente Mubarak viene ora ricordato dagli egiziani come un leader equilibrato. Anche lui chiudeva in prigione gli oppositori, ma il dissenso lasciava una camera di compensazione. I Fratelli musulmani erano rigidamente controllati ma erano rappresentati in parlamento e nella vita sociale. Ugo Tramballi ha scritto su Il Sole 24 Ore che «Omar Suleiman, il suo fedele capo supremo per la sicurezza nazionale, non avrebbe permesso che un giovane italiano fosse assassinato da un sistema poliziesco mafioso e caotico come quello che oggi governa l’Egitto».