È solo finzione. Così Stefano Fresi, attore protagonista di un controverso spot del Parmigiano Reggiano che nei giorni scorsi ha suscitato parecchie polemiche, ha giustificato la sua partecipazione al cortometraggio pubblicitario diretto da Paolo Genovese. Ma si tratta davvero di pura finzione? E se anche così fosse, siamo sicuri che una finzione sia così innocua come sostiene Fresi?

Nella pubblicità incriminata un casaro, detto Renatino con un diminutivo vagamente paternalistico, riceve i complimenti di un gruppo di giovani. Perché Renatino, sostiene il personaggio interpretato da Fresi, fa il formaggio da quando aveva 18 anni. 365 giorni l’anno. Senza mai andare al mare o a sciare, senza mai “vedere Parigi”, come sottolineano i ragazzi. A suo dire, è felice così. Un’iperbole per magnificare la bontà del parmigiano? Certo. Ma è un’immagine sgradevole, di cattivo gusto. E checché ne dicano autori ed interpreti, anche nociva. Perché rimanda a una certa visione del mondo del lavoro che vede l’operaio come una risorsa da spremere. Alla mitologia stakanovista dell’operosità instancabile come propaganda per convincere quella risorsa a stare buona.

Un’immagine del corto “Gli Amigos” – Credits: Akita Film, Parmigiano Reggiano

Senza andare a scomodare decenni di lotta di classe, è la stessa finzione a venirci in aiuto per capire in che modo l’immagine del lavoratore sullo schermo richiama e influenza quella delle persone in carne ed ossa. Al cinema e più ancora in televisione, in epoche e narrazioni diverse, il lavoro è stato rappresentato di volta in volta come qualcosa a cui dedicarsi in modo totalizzante, come un fastidio a cui sfuggire, o come uno schema da sovvertire.

Molte storie che abbiamo seguito assiduamente sullo schermo ci hanno detto che essere workaholic, ovvero dipendenti dal lavoro come da una sostanza che dà assuefazione, è un pregio. Come se preferire il lavoro alla famiglia e al tempo libero fosse nobile e giusto, oltre che eccitante. Per esempio, in Grey’s Anatomy i protagonisti sono giovani specializzandi in medicina, zelanti al punto da dover essere cacciati a forza dopo turni massacranti di 72 ore.

Certo, Grey’s Anatomy è una di quelle serie ambientati in luoghi di lavoro considerati prestigiosi. Da E.R. – Medici in prima linea a Scrubs, da Allie McBeal a Suits, non si contano le storie che hanno per protagonisti medici e avvocati. A queste professioni viene attribuito un ruolo aspirazionale. Anche se spesso si focalizzano più sulla vita privata e sulle relazioni dei protagonisti che sul loro lavoro, la morale è che sia giusto sacrificarsi per mestieri di così alto livello. Ma che ne è dei lavori più “umili”?

Jenna Fisher e John Krasinski in una scena di The Office – Credits: NBC

Certo non sarebbe credibile raccontare i Renatino di questo mondo alla stregua dell’assistente di Miranda Priestley in Il diavolo veste Prada: “un milione di ragazze ucciderebbero per fare il formaggio”. Mestieri come il suo, di solito, finiscono relegati alle workplace sit-coms. Cioè commedie che rappresentano ambienti lavorativi come luoghi in cui ci si sente tra amici o addirittura in famiglia. Ma che non sono più così popolari da quando la crisi ci ha tolto la fantasia di essere soddisfatti con un lavoro di livello medio-basso.

In particolare, due serie mockumentary sono un esempio di come la visione moderna del lavoro d’ufficio viene trasposta sul piccolo schermo. Parks and Recreation vede gli impiegati di un municipio, un miscuglio di incompetenza, pigrizia e sogni infranti, costretti a darsi da fare dall’entusiasmo di una funzionaria idealista. Nella celeberrima The Office, un’azienda privata viene spesso paragonata a una prigione. I protagonisti tentano di svolgere le loro mansioni alienanti nel minor tempo possibile. Unico obbiettivo: portare a casa lo stipendio.

L’alternativa sarebbe questa: lavori di grande successo, dipinti nella luce epica di ciò che dà significato alla vita e per cui si può e si deve rinunciare a tutto il resto, o impieghi miseri che distruggono l’anima, raccontati con ironia e sarcasmo.

Come siamo passati da Tempi Moderni di Charlie Chaplin, dalla narrativa dell’impiegato esausto che cerca di sfuggire a un ruolo disumanizzante, a una sorta di ossessione religiosa per il lavoro? È successo che pian piano, la semplice idea di fare un lavoro stimolante è diventata un sostituto alla vita sociale, al riposo e, in certi casi limite, persino allo stipendio. E questa idea è passata anche attraverso la finzione.

La mancanza di consapevolezza sui diritti, anche nei prodotti di intrattenimento da cui siamo bersagliati, produce una realtà di Renatini da spremere. Però, sempre dalla finzione, ci viene anche una via di fuga. Il riscatto di quei personaggi che si battono, spesso con le armi dell’umorismo e della fantasia, contro lavori frustranti e ambienti tossici. Personaggi come Jim Halpert di The Office, che impiega le sue energie per rendere la permanenza in ufficio meno noiosa e più imprevedibile. O come Gina Linetti, la segretaria della sit-com Brooklyn 99, totalmente priva di rispetto per la sua mansione, ma al tempo stesso creativa e carismatica. O ancora, per fare un esempio più vicino all’immaginario nostrano, i protagonisti di Camera Cafè: esiste qualche spettatore convinto che, oltre a chiacchierare nel corridoio, fossero anche dei dipendenti zelanti? Decisamente no.

Ogni giorno emergono nuovi esempi del cambiamento in atto nel nostro modo di vedere la cultura del lavoro. Come Ji-Yoon Kim, la protagonista della serie The Chair, che fa un passo indietro dal suo ruolo di direttrice universitaria rifiutandone le dinamiche da squallida lotta di potere. I personaggi che amiamo sono quelli che non si lasciano trattare come l’ingranaggio di una macchina. Anche se forse la loro etica lavorativa non è esattamente da ammirare.

Perché quello che vogliamo, ed è qui che Fresi fraintende le critiche, non è una rappresentazione verosimile. È un tipo di finzione che tenga conto del fatto che un lavoro, spesso, è solo un lavoro. Non è una missione, né la misura del valore di una persona, nemmeno quando lo si svolge con passione. In scena, vorremmo persone che restano persone, senza l’abbrutimento di un ruolo puramente produttivo. Che poi sia anche quello che vorremmo per noi stessi, nella realtà, è tutta un’altra storia… rigorosamente non-fiction.