«Après nous, le déluge».

La frase è attribuita a Madame de Pompadour per consolare il suo amante Luigi XV, ed è riportata da Marx nel capitale. «Après moi, le déluge! E’ la parola d’ordine di ogni capitalista e di ogni nazione capitalista. Quindi il capitale non si cura della salute o della durata della vita del lavoratore, a meno che non sia costretto dalla società».

Nel panorama italiano una figura più di altre è paragonabile a un monarca francese: Silvio Berlusconi. Novello “Re Sole” (o, così come nel 2004 è stato tratteggiato dalla penna affilata del vignettista Giannelli, “il Re Sola”) capace di creare attorno a sé una polarizzazione, un dibattito politico e un confronto ad personam inversamente proporzionale al peso dell’eredità politica che si prospetta di succedergli.

La celebre vignetta di Giannelli del 2004

Da trent’anni Berlusconi rappresenta un’anomalia nella storia del centrodestra, di cui è contemporaneamente uomo simbolo e paria, federatore e ingombro.
Lo è dal 1994, quando la scesa in campo è iniziata all’insegna della rivoluzione liberale, parola che nella politica italiana rappresenta qualcosa di diverso dal tabù, è la donna dalle belle ciglia: tutti – o quasi – la vogliono ma nessuno se la piglia. Così anche il Cavaliere è iscrivibile alla lista dei liberali a parole, il che, sempre per amor di parola, lo renderebbe il primo liberale alla Presidenza del Consiglio dal 1922.

Non vi sarà sfuggito che nella nostra rubrica che si occupa di radiografare i partiti, sino qui non abbiamo nominato neanche una volta Forza Italia. Non è un caso, il personalismo di Berlusconi rappresenta la storia della Seconda Repubblica: contemporaneamente l’argine e il ponte tra le ideologie politiche della Prima e il populismo della fantomatica Terza.

Tutte le stagioni recenti della nostra politica passano per Berlusconi, il grande tessitore della storia recente del nostro paese. Proprio con il tessitore per antonomasia, Cavour, condivide l’impedimento biografico alla realizzazione del mosaico nazionale: per il Conte fu la prematura scomparsa, per il Cavaliere la vita processuale.

Mentre l’astro dei partiti personalistici sembra tramontare, un Berlusconi decadente piazza il colpo personale: Mario Draghi è innegabilmente un suo uomo.

Sul viale del tramonto rimane l’intera classe dirigente del nostro paese, perfettamente rappresentata dal chiedi alla polvere che è la dirigenza di Forza Italia. Al ritorno dopo dieci anni il partito torna al governo proponendo le stesse identiche facce invecchiate.

In ogni caso, se dovesse chiudere nel 2023 insieme al governo della creatura che ha contribuito a creare, la parabola del fondatore di Forza Italia sarebbe da considerarsi trionfale. Il problema è che come un desolante Peter Pan, non si chiuderà con Draghi: sic transit gloria mundi.

Allora, di fronte all’inesorabile corso degli anni per un leader la cui anagrafe dice ottantaquattro, che destino si cela di fronte a Forza Italia? La cannibalizzazione da destra o l’annacquamento verso sinistra in un centro sempre più fumoso dopo il fallimento di Renzi?

L’avvio della XVIII legislatura è iniziato in continuità con le precedenti, il partito dalla rifondazione nel 2013 ha conosciuto solo cali elettorali: dal 16% alle Europee del 2014 all’8% a quelle del 2019. Agli abbandoni di Fitto e dell’Ala Verdiniana nel 2015, si è aggiunto quello di Toti che nel 2019 ha fondato Cambiamo! dopo aver ricoperto il ruolo di coordinatore del partito.

Mentre all’orizzonte, fatto di processi, salute cagionevole e debacle elettorali, si stagliava l’ora più buia, Forza Italia è riuscita ad arginare le perdite. La fuoriuscita di Mara Carfagna, una perdita che sarebbe forse stata fatale per il barcollante castello azzurro, è stata scongiurata. Complice il calo del Capitano e il vuoto non colmato nella galassia centrista, il Cavaliere è riuscito a drenare in parte le perdite e a rialzare la china, fino alla clamorosa congiuntura che ha portato Draghi a Palazzo Chigi e Forza Italia di nuovo in sella.

Forza Italia si è sempre icasticamente identificata con il suo fondatore, che complice la tumultuosa natura della “discesa in campo” del 1994 e la sagacia nell’intermediazione compiuta tra anime politiche tra loro distanti come quella radicata territorialmente nel Nord della Lega e quella post-missina di Alleanza Nazionale ha trasmesso tale identificazione all’intero centrodestra fino al sorpasso del Carroccio nel 2018.

Un’identificazione, questa, che ha portato Forza Italia a una condizione ibrida: partito di governo per natura e strutturazione da un lato, formazione priva di un reale meccanismo di selezione interna della classe dirigente dall’altro; formazione in grado di attrarre al suo interno le sensibilità di liberali, popolari, cattolici, conservatori, esponenti della destra del Psi e europeisti ma che ha sempre costruito il suo programma elettorale su pochi principi cari al leader dall’altro.

Riduzione delle imposte, sgravo burocratico, creazione di posti di lavoro, investimenti infrastrutturali: l’agenda di politica economica del Cavaliere si è sempre concentrata su una serie ristretta ma chiara di presupposti. Questi i “cavalli di battaglia” all’americana trasmessi per costruire la base del consenso attorno a Forza Italia. Partito più liberale che liberista, non priva assieme al suo leader della visione sistemica dello Stato che si sta ben esplicitando in questi ultimi mesi con l’attenta regia di Sestino Giacomoni a capo della commissione di vigilanza di Cassa Depositi e Prestiti e si è manifestata, soprattutto, laddove la politica sfumava in termini più vicini alla governance aziendale, ovvero nel processo di nomina dei vertici delle partecipate pubbliche e dei boiardi di Stato. Paolo Scaroni è stato designato ai vertici di Enel nel 2002 e di Eni nel 2005, venendo sostituito nel ruolo precedente da Fulvio Conti; Giovanni Gorno Tempini ad di Cassa Depositi e Prestiti nel 2010; Pier Francesco Guarguaglini è stato scelto nel 2002 per Finmeccanica e Mauro Moretti nel 2006 per Ferrovie dello Stato. Parliamo di nomi, la cui scelta è stata filtrata dal pesante contributo del sottosegretario Gianni Letta, vero e proprio regista dell’esperienza politica berlusconiana, che hanno portato le rispettive aziende strategiche ad adattarsi ai meccanismi competitivi dell’era globalizzata.

Per non parlare del “cavallo di razza” per eccellenza su cui Berlusconi ha scommesso, quel Mario Draghi chiamato ai vertici della Banca d’Italia nel 2005 e voluto, fortissimamente voluto dal Cavaliere per la guida della Bce nel 2011, quando la spuntò nonostante le avverse condizioni che gravavano sul Paese, prima del rendez-vous governativo di quest’anno. In cui, eterno ritorno dell’eguale, Super Mario ha chiamato al governo tre forzisti membri dell’esecutivo che spinse per la sua ascesa all’Eurotower.

La “diplomazia personale” di Berlusconi ha plasmato anche la politica estera del Paese negli otto anni dei suoi governi. Vivendo la diplomazia con il fiuto per il “fattore umano” Berlusconi è stato protagonista degli affari internazionali evolvendo, attorno ai tradizionali paradigmi di europeismo ed atlantismo ferrei che ne hanno contraddistinto la marcia, una serie di rapporti bilaterali ben ricordati da tutti i protagonisti della stagione in cui è stato ai vertici del Paese. E se da un lato questo in certi casi ha prodotto errori di valutazione come la partecipazione alla guerra irachena del 2003 voluta dagli amici Tony Blair e George W. Bush, dall’altro indubbiamente Berlusconi ha supplito con il suo presenzialismo alla difficoltà del sistema-Paese di elaborare strategie di medio-lungo periodo nell’era della globalizzazione. L’attenzione per la Russia di Vladimir Putin, il Brasile di Lula, la Turchia di Erdogan è andata di pari passo con la diplomazia personale del Cavaliere e ha aperto prospettive economiche al sistema-Paese, mentre agli apparati della Difesa e all’immancabile Letta, “regista” delle politiche dell’intelligence, erano delegati i lavori per l’elaborazione della strategia di sicurezza nazionale. Nella fase finale della parabola governativa di Berlusconi, tale approccio ha iniziato a essere non più sufficiente per ovviare con le epocali sfide aperte dalla crisi economica del 2007-2008 e dalla tempesta europea sui debiti sovrani del 2010-2011: la forzatura del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e del Ministro degli Esteri Franco Frattini, desideroso di avere i voti francesi e britannici per la corsa alla segreteria Nato, crearono il doloroso errore della guerra libica nel 2011, pochi mesi prima che l’Unione Europea decidesse, per mezzo dei domini Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, di isolare e mettere all’angolo il governo Berlusconi IV. “Colpevole” di strategie eccessivamente autonome verso l’amico Putin, di un percorso non eccessivamente limpido sul rovinoso sentiero dell’austerità e di aver inflitto al duo Parigi-Berlino lo smacco dell’elezione di Draghi in condizione di debolezza.

Quattro libri aiutano, incrociati l’uno con l’altro, a ricostruire lo scenario in maniera precisa, come ha fatto notare per primo Luca Ricolfi su Panorama. Si tratta delle autobiografie dell’ex premier spagnolo Zapatero (El dilema) e dell’ex Segretario al Tesoro statunitense Timothy Geithner (Stress Test) a cui bisogna aggiungere My Way, la biografia dello stesso Berlusconi curata da Alan Friedman e il recente saggio dell’ex direttore del Sole 24 Ore Roberto Napoletano, Il Cigno nero e il Cavaliere bianco.

Nella memoria collettiva riguardante quei mesi di acutissima tensione, il profilo del responsabile principale dell’offensiva finanziaria che mise in ginocchio l’Italia sembra coincidere con quello della Germania di Angela Merkel, i cui istituti giocarono invero un ruolo notevole: basti pensare alla vendita allo scoperto di 7 miliardi di titoli pubblici italiani da parte di Deutsche Bank, attuale mina vagante dell’economia europea, tra la fine del 2010 e il luglio 2011 che contribuì a portare i rendimenti dei Btp alle stelle.

Tuttavia, una lettura incrociata delle principali fonti sui fatti del 2011 rafforza i sospetti su Parigi e sui suoi uomini nelle istituzioni finanziarie internazionali. Mano a mano che si costituiva l’asse franco-tedesco in seno all’Eurozona, Nicolas Sarkozy si andava convincendo che solo attraendo l’Italia come satellite la Francia avrebbe potuto riequilibrare l’egemonia di Berlino. Da qui l’azione su due fronti. Sul versante mediterraneo, l’azione contro la Libia di Gheddafi, aperta sfida geopolitica a Roma a cui il governo Berlusconi fu costretto a partecipare dietro le pressioni del Quirinale. Sul fronte finanziario, la manovra accerchiante per costringere l’Italia ad accettare una manovra di “lacrime e sangue” e, in prospettiva, l’intervento della Troika. Premessa necessaria per una svendita massiccia di asset e un ridimensionamento economico del Paese di cui gli attori francesi avrebbero inevitabilmente tratto giovamento.

Un colpo duro che, a dieci anni di distanza, permette di leggere nel fideistico europeismo di Forza Italia il simbolo di una sconfitta politica da cui il Cavaliere e i suoi non hanno ancora avuto modo di riprendersi.

Camilla Bianchi

L’impressione che si trae da questa lettura della parabola berlusconiana è quelle che la traiettoria di Forza Italia sia quella del suo padre-padrone. Più che ai monarchi settecenteschi francesi, Berlusconi fa pensare a un moderno Mazzarò: centrodestra miovientene con me!