All gave some, some gave all

«It’s just God disguised as Michael Jordan» – Larry Bird

È Dio travestito da Michael Jordan. In una citazione di una riga ci sono tre sinonimi di entità soprannaturale: uno sta nell’alto dei cieli, gli altri due in quel memorabile 20 aprile 1986 indossavano il primo la canotta rossa di Chicago, il secondo quella bianca coi bordi verdi di Boston.

La pallacanestro è lo sport che più di tutti è in grado di elevare l’uomo verso l’Altissimo. C’è un senso di onnipotenza, di appagamento del destino della nostra specie nel vedere un essere umano alzarsi in volo per liberare il pallone che ha tra le mani verso canestro, per distacco uno dei migliori utilizzi del pollice opponibile. Bill Russell, il giocatore più vincente della storia della Nba con 11 titoli vinti in 13 stagioni, ha detto che «il basket è l’unico sport che tende al cielo. Per questo è una rivoluzione per chi è abituato a guardare sempre a terra».

La grandezza di Russell e Bird continua ad essere riconosciuta anche da noi che non li abbiamo mai visti giocare. Il loro ingresso nel pantheon della pallacanestro è una catechesi che ci viene imposta. Nella nostra teologia, il dio del basket è uno e trino: nel nome di Michael, di LeBron e di Kobe. Noi millennials nati dopo il crollo del Muro e il draft del 1984, non ci siamo potuti godere appieno Jordan. Cresciuti a cavallo tra Sportitalia e Rai – con Tele+ per i più fortunati – avevamo già il cuore impegnato quando James ha fatto irruzione nella lega. L’apostolo del basket per la nostra generazione ora è salito al cielo.

«La maggior parte dei baby boomers saprebbe dirti dove si trovava quando apprese che avevano sparato a J.F.K. Adesso i fan del basket hanno la loro personale e terribile versione di quel momento». Il New York Times ha deciso di paragonare la scomparsa di Kobe Bryant a quella di John Kennedy, come epifania indimenticabile di una nazione. Un trauma collettivo indelebile, come si conviene alla scomparsa improvvisa di un personaggio storico. Ma Kobe Bryant non era solo storia.

Schemi e statistiche fanno di quello a spicchi uno dei palloni più razionali. Ma è l’irrazionalità dell’elemento sportivo quasi a sempre a fidelizzare lo spettatore e il tifoso. Pochi sportivi nella storia sono stati in grado di far convivere apollineo e dionisiaco come Kobe Bryant. Sfrenato, incontenibile. Come quella notte in cui mise a referto 81 – ottantuno – punti; o quando ha schiacciato passando sotto il canestro. Armonioso, lineare. Come la sua filosofia, la Mamba Mentality: l’etica del lavoro e lo spirito della pallacanestro. Nel mezzo ci sono state sfumature oscillanti di Kobe, tante quanti i punti realizzati in carriera: 33.643. Palla a Kobe per il canestro allo scadere, i tiri liberi col tendine d’Achille rotto, il film delle finals 2010, gli alley oop a Shaq, e ovviamente “Kobe non ha paura”.

Nel corso della sua straordinaria storia Kobe era diventato leggenda. Il 26 gennaio sulle colline di Calabasas, la leggenda di Kobe è entrata nel mito. La politica divideva gli antichi greci che però tra loro si scoprivano affratellatati anche grazie al mito. Un corpus condiviso di racconti investiti di sacralità sulle origini della storia o sul modo in cui il mondo avesse assunto le sembianze attuali. I miti riguardano l’esistenza di tutti, religione o letteratura, sono di tutti.

«Caro basket, dal momento in cui ho cominciato ad arrotolare i calzini di mio padre e a lanciare immaginari tiri della vittoria nel Great Western Forum ho saputo che una cosa era reale: mi ero innamorato di te». Questa è l’origine della storia, una storia che è valsa un Oscar.

Il passaggio da mythos a logos, da racconto a discorso è fondamentale per la nascita della filosofia. Logos è un’entità intermedia posta tra Dio e il cosmo, è la parola rivelata secondo il Vangelo. Il verbo si è fatto carne e venne ad abitare in mezzo a noi, nella Bassa Padana. Kobe Bryant è stato un semidio umano, troppo umano come dimostrano le cadute. Dal campo, con la finale persa nel 2006 contro i rivali di sempre di Boston, alla vita privata con l’accusa di stupro. La sua vicenda è stata totalizzante, una fonte d’ispirazione universale tra il bene e il male. Anzi, al di là di questi due estremi: Kobe Bryant ha travalicato la dimensione umana.

E poco importa se la carta igienica sportiva nostrana non ha dedicato alla vicenda lo spazio che merita:

Kobe perdonali perché non sanno di quello che scrivono

«Acta est fabula, Plaudite!». Così Svetonio riporta le ultime parole terrene del primo imperatore romano ad essere venerato come divinità mentre era ancora in vita, il divus Augusto. Anche la favola terrena di Kobe Bean Bryant si è conclusa. Se vi è piaciuta, non applaudite: andate in un parchetto e mettetevi a tirare a canestro. Step back!