A Dallas si sta preparando il Natale. Varcate le porte a vetri della Neiman-Marcus, la catena di “Grandi Magazzini” di lusso americana, si entra in un mondo magico, fatto di commessi sorridenti, sfarzo e luci a illuminare la scena, e un grande albero di Natale addobbato a stagliarsi maestoso. È il momento più importante dell’anno, quello in cui chi lavora nel magazzino, percorrendo l’intera filiera, dai dirigenti ai commessi, dovrà vestire l’abito più seducente possibile per spingere i clienti ad acquistare.
Ma cosa succede quando lo sguardo di una telecamera invade lo spazio e osserva silenziosa i meccanismi che stanno dietro? E soprattutto, se è quella del documentarista Frederick Wiseman?
Grandi Magazzini (The Store, 1983) ha una forza non indifferente dalla sua parte: il doppio gioco tra realtà e finzione. Lo sguardo della camera si posa su riunioni e vendite, colloqui di lavoro e sfilate private per presentare i nuovi modelli di abbigliamento. Il risultato, però, è sempre lo stesso: recitare per vendere. E a colpire è proprio il contrasto con cui la camera sembra limitarsi a registrare, riprodurre una realtà che si nasconde dietro le pieghe di un ideale di consumo. Grandi Magazzini, per certi versi, esemplifica il lavoro di documentarista che Frederick Wiseman ha portato avanti fin dal lontano Titicut Follies del 1967 – uno dei suoi lavori più famosi – per approdare sino ai giorni nostri, con il recente Ex Libris (2017) e Monrovia, Indiana (2018).
L’occhio di Wiseman è un occhio che registra e riproduce e che, una volta terminate le riprese, passa alla sala di montaggio. È solo qui che l’occhio si fa sguardo, e la riproduzione di immagini si trasforma in produzione di significato. Non è un caso che il materiale attraverso cui Wiseman lavora nel montaggio sia sterminato. In un’intervista del 2012 riguardo alla sua opera di documentarista e il rapporto tra film (prodotto girato) e realtà, Wiseman ha affermato di accumulare dalle 90 alle 250 ore di girato per film (termine che, paradossalmente, l’autore americano preferisce al termine “documentario”). È solo con il montaggio, dunque, che il materiale magmatico delle riprese assume una forma precisa e definita e, conseguentemente, si carica del messaggio dell’autore: «L’essenza del montaggio è compiere scelte su come e quale materiale usare e ordinare. […] Il montaggio del materiale è in qualche modo simile alla scrittura, eccetto per il fatto che relazionarsi ai fatti o all’immaginazione è differente». Montaggio come scrittura, quindi, ma una scrittura del reale. Una selezione di dati oggettivi che attraverso l’uso del montaggio mutano per diventare anche specchio della realtà. Uno specchio osservante, che riflette il dato per ritornare indietro con un nuovo volto, una nuova forma.
Di fronte a una sostanziale oggettività delle riprese, passata attraverso un filtro così importante come quello del montaggio operato da Wiseman, ci si potrebbe domandare dove finisca la neutralità delle riprese e dove cominci una potenziale mistificazione delle immagini. E, ancora, se subentri o meno uno sguardo giudicante: «Penso sia molto importante essere “corretti” [to be fair], anche se non ho una precisa idea di cosa questa parola significhi. Uso la parola “corretto” per suggerire che non cerco di manipolare il montaggio al punto che il senso delle scene una volta montate risulti diverso dal materiale originale».
L’attenzione rivolta verso la realtà, per Wiseman, coincide dunque con un profondo rispetto per essa. L’atto del montaggio non significa perciò mistificare la realtà, quanto tentare di comprenderla, facendola propria attraverso la selezione del materiale. «Cerco di preservare l’integrità, l’ambiguità, lo humour e la tristezza dell’evento filmato, il che significa che la mia comprensione dell’evento potrebbe essere o non essere accurata. Una delle gioie del montaggio è il farmi porre costantemente la domanda: “perché?”. Perché hanno scelto quelle parole? Perché qualcuno si ferma a metà di una frase? Perché girano la testa? Perché chiedono la sigaretta in quel particolare momento? Perché hanno quei vestiti addosso per quel particolare evento a cui stanno partecipando?».
La poetica documentaristica di Wiseman si potrebbe riassumere nel suo “perché”. Un perché a posteriori, che indaga su una realtà filmata ancora da comprendere. Una realtà filmata senza pregiudizi, guidato dalla curiosità di svelarne il segreto. Perché la realtà sta tutta in quel perché.
Fonte immagine: vanityfair.com – Everett Collection. Frederick Wiseman (1978)