È opinione comune pensare che le guerre persiane siano state il primissimo vagito della neonata Europa. O meglio, della nostra concezione primordiale d’Europa. La fonte principale di questo periodo, cioè colui che ha narrato (più che descritto) uno degli episodi principali della nostra storia europea, è Erodoto. Chiunque si sia occupato, in seguito, di Salamina, di Re Serse, delle Termopili, del tradimento di Efialte, lo ha fatto prendendo spunto dallo storico greco. Erodoto è ancora oggi un passaggio obbligato, nonostante sia stato inviso per buona parte dell’epoca successiva, per esempio da Tucidide e da Plutarco, che addirittura lo definì “philobarbaros”. Wolfgang Will, storico tedesco contemporaneo, ha scritto un libricino titolato semplicemente Le guerre persiane e, di fatto, rielabora la narrazione di Erodoto. Alla fine del racconto, lo storico berlinese si pone una questione: ai giorni nostri, esiste un lascito delle guerre persiane? Forse è vero che la nostra concezione d’Europa è nata quel giorno, con la neonata cultura occidentale che si oppose, per la prima volta, a un nemico esterno, come è avvenuto spesso e volentieri in epoche successive. Ma a livello concreto e tangibile, cosa è rimasto delle guerre persiane nel mondo contemporaneo?

Lo tattica ateniese nella battaglia del 490.

Concretamente è rimasto un episodio, una corsa, probabilmente mai avvenuta. Tale Filippide, percorse i 42 chilometri e 195 metri che separavano (e separano tutt’ora) Maratona, luogo della vittoria dell’esercito ateniese, dalla Polis per antonomasia. Stando a Erodoto Fidippide (con la D) era un emerodromo, che però percorse il tragitto da Atene a Sparta per chiedere appoggio in vista della battaglia di Maratona. Fu Plutarco a raccontare la storia di un corridore, senza nome, che dopo la vittoria sull’esercito persiano corse fino ad Atene per annunciare la vittoria. Nel II secolo dopo cristo, lo storico Luciano riportò la stessa leggenda, affibbiando a tale eroe il nome di Filippide. Come si evince, la vicenda storica è troppo confusa e, soprattutto, la sua veridicità ci interessa relativamente. Ciò che conta è che sul finire dell’ottocento, quando nacquero i Giochi Olimpici moderni, De Coubertin e gli altri organizzatori non ebbero dubbi. C’era bisogno di una gara podistica che rievocasse il mito di quella corsa di Fidippide, o Filippide, o chicchessia. Da quel momento la Maratona divenne la gara più ambita di ogni edizione dei Giochi Olimpici dell’era moderna.

Nel 1894 all’anfiteatro della Sorbonne si tenne un congresso internazionale che riunì forti personalità di spicco dell’epoca, tutte ruotanti intorno al Barone de Coubertin, che si pose fin da subito un obiettivo: creare ed organizzare la prima edizione dei Giochi Olimpici moderni. La proposta iniziale fu quella di organizzare le Olimpiadi nella stessa Parigi (e dove, se no?) nel 1900. Il timore che l’attesa di sei anni sarebbe stata eccessiva e avrebbe fatto diminuire l’interesse verso la manifestazione, fece sì che venne presa la decisione di svolgere la prima edizione nel 1896. Dato che la capitale francese avrebbe ospitato i primi Giochi del XX secolo, restava quindi da trovare il luogo per la prima, storica, edizione. Molti partecipanti spinsero per Londra, ma De Coubertin, come tutti i francesi, nicchiò sull’idea di assegnare agli inglesi tale primato. La stessa Budapest, che avrebbe omaggiato i mille anni dalla fondazione dello stato magiaro, sarebbe potuta essere una meta interessante, ma fu proprio il barone de Coubertin ad avanzare un’altra proposta maggiormente suggestiva: e se riprendessimo da dove tutto cominciò? L’idea era geniale e la decisione venne avvallata all’unanimità: due anni dopo il congresso, nel 1896, la prima edizione dei Giochi Olimpici moderni si sarebbe svolta ad Atene.

Il baffo di Pierre de Coubertin.

Dalla grandeur parigina il nostro racconto si sposta nei campi contadini della pianura padana, alle porte di Milano. In quegli stessi anni di fermento sportivo ad Origgio, campagna milanese, cresceva un uomo della stessa stirpe di un Fidippide, uno che Erodoto (e quelli che parlavano la sua stessa lingua) definiva emerodromo, cioè colui che corre per un giorno intero. Nell’antica Grecia l’emerodromo era un professionista, un messaggero che percorreva, a piedi e in solitaria, distanze chilometriche per comunicare una decisione, una richiesta di aiuto, una vittoria. In sintesi, per portare un messaggio. Quell’uomo di Origgio, che venne al mondo il 21 settembre del 1869, per vivere faceva altre cose. Inizialmente il contadino, come il padre Luigi, ma ben presto divenne operaio in una importante fabbrica di cioccolato della zona. Nel frattempo però Carlo Airoldi, questo il suo nome, amava correre. E già nei primi anni ’90 dell’ottocento cominciò a farsi conoscere partecipando ad alcune gare podistiche nel nord Italia. Trionfò nel 1892 nella Lecco – Milano e nella Milano – Torino, ma divenne celebre tre anni più tardi quando vinse una particolare corsa a tappe internazionale, la Milano – Barcellona. Il suo rivale principale era un francese che nacque proprio nel mezzo del percorso della gara, ovvero nel porto di Marsiglia. Una corsa di oltre mille chilometri si decise negli ultimi mille metri. Carlo superò il marsigliese Louis Ortégue, poi si voltò e vide il suo rivale a terra stremato. Il ragazzo della campagna milanese tornò indietro, si caricò Louis sulle spalle e tagliò il traguardo, tenendo però a precisare, di fronte alla giuria, di essere arrivato lui per primo, mentre le marseillais era secondo. La vittoria gli fruttò duemila pesetas di premio che, come vedremo, gli costeranno parecchio. Con il senno di poi si sarebbe dovuto accontentare di qualche fetta di jámon serrano.

Una delle poche immagini che ci resta dell’atleta di Origgio.

Le Olimpiadi del XXI secolo sono una gigantesca kermesse mondiale. Quella ateniese del 1896 di gigantesco aveva ben poco, eppure nacque con il preciso intento di essere una manifestazione internazionale. Ad Atene si sarebbero riuniti i partecipanti da ogni parte del mondo, in un contesto multiculturale e sovranazionale. Ma a pensarci bene, questo carattere internazionale non era molto distante dall’ideologia delle olimpiadi della storia antica, dove si riunivano i partecipanti di ogni polis (città-stato) greca. Venuto a conoscenza dell’evento sportivo che si sarebbe svolto ad Atene, Carlo decise che avrebbe voluto parteciparvi. D’altronde era uno dei migliori podisti dell’epoca, aveva vinto la Milano – Barcellona duellando con il grande Louis Ortégue, cosa saranno mai, al confronto, quei quaranta chilometri? Già, 40, perché la misurazione che viene riconosciuta oggi (42 chilometri e 195 metri) venne ufficializzata solamente nel 1921, al seguito dell’esatto calcolo della distanza tra Maratona e Atene.

All’epoca dall’Italia si sarebbe potuto andare ad Atene solamente via nave, facendo scalo a Patrasso. Carlo, però, non aveva denaro sufficiente per un viaggio del genere, enormemente costoso. Gli venne in soccorso un noto giornale milanese dell’epoca, La Bicicletta, che si propose di finanziare il viaggio pedestre (niente nave) da Milano alla Grecia, documentando e raccontando quel meraviglioso itinerario. Carlo avrebbe dovuto attraversare due imperi, l’austro-ungarico e l’ottomano, prima di arrivare in Attica, la patria della cultura occidentale. Il viaggio e la meta si fusero in un tutt’uno: Carlo partì il 28 febbraio 1896 con l’obiettivo, e la speranza, di arrivare nei primi giorni di aprile in modo tale da iscriversi e partecipare a quella che sarebbe stata la prima Maratona della storia moderna.

Il viaggio di Carlo durò poco più di un mese, dal 28 febbraio al 31 marzo 1896.

La prima parte del viaggio, fino alla Dalmazia, fu abbastanza lineare. Certamente le strade, spesso dissestate e fangose, non favorivano un percorso agevole e tranquillo, ma quelle erano comunque zone sicure. Niente briganti e, oltretutto, la Dalmazia è sempre stata una regione culturalmente non troppo distante dall’Italia (o perlomeno da Venezia, che la tenne sotto il suo controllo per quasi quattro secoli). Quando arrivò a Spalato, Carlo conobbe un veneto che gli propose di sfidare il miglior corridore della città. Il podista di Origgio vinse agevolmente, ma la sua corsa continuò anche una volta oltrepassato il traguardo, poiché dovette fuggire da un possibile linciaggio degli scommettitori slavi, che puntarono molto sul corridore locale.

Una raffigurazione del celeberrimo palazzo di Diocleziano a Spalato.

Questa deve essere una delle innumerevoli avventure vissute da Carlo Airoldi durante quel mese di cui, purtroppo, abbiamo sì notizie, ma non estremamente dettagliate. Per esempio, sappiamo che gli fu sconsigliato di passare dall’Albania, poiché all’epoca il brigantaggio era un fenomeno parecchio diffuso. Carlo quindi si imbarcò su un piroscafo, fece scalo a Corfù ed arrivò a Patrasso. Da lì raggiunse Atene camminando lungo i binari della ferrovia, poiché non esistevano strade in condizioni accettabili. Carlo Airoldi vide il Partenone il 31 marzo del 1896, in tempo per l’apertura dei Giochi, che sarebbero cominciati esattamente una settimana più tardi. Il difficile, quella traversata nei Balcani, sembrava essere definitivamente alle spalle.

La beffa, invece, arrivò poco dopo.

Come è lecito immaginare la Maratona ebbe, fin dal principio, un valore propagandistico molto elevato. Gli organizzatori greci cerchiarono la gara con il bollino rosso: la Maratona sarebbe dovuta andare obbligatoriamente a un loro connazionale. A fine marzo, a un paio di settimane dalla cerimonia d’apertura al Panathinaiko (detto anche il Kallimarmaron, lo stadio dei bei marmi), venne organizzato una corsa eliminatoria stravinta da Charilaos Vasilakos, il grande favorito. Nel 1896 la Maratona era una competizione totalmente nuova, poiché nessuno, ovviamente, l’aveva mai corsa prima d’ora. I greci, grazie alla loro formidabile astuzia, decisero di imbastire una seconda eliminatoria poco prima della vera gara, per due semplici motivi: innanzitutto per capire quali atleti avrebbero avuto maggiori possibilità di vittoria e poi, soprattutto, per preparare questi ultimi, fisicamente e mentalmente, ai 40 chilometri che avrebbero dovuto percorrere, quasi totalmente in apnea.

Lo stadio Panathinaiko, letteralmente “stadio di tutti gli ateniesi”.

Una volta sistemato in città Carlo Airoldi venne ricevuto dal principe Costantino, poiché ormai, tra i vicoli della capitale, cominciò a circolare la voce di questo straordinario atleta italiano giunto in Attica dopo un lungo peregrinare nei Balcanici. La versione di Carlo non ammette repliche: i greci non avrebbero potuto accettare un vincitore straniero, così si attaccarono a un cavillo legislativo. Almeno fino all’avvento del marchese Saramanch, le Olimpiadi furono sempre una manifestazione dilettantistica e Carlo Airoldi aveva guadagnato del denaro grazie allo sport (quelle celebri duemila pesetas nella Milano – Barcellona), quindi non avrebbe potuto correre la Maratona olimpica, poiché era considerato un professionista. Ad Atene giunsero svariati telegrammi da Roma, volti a sottolineare che in Italia non esistevano corridori di professioni: quelle pesetas conquistate in terra catalana erano un premio, un omaggio, un regalo.

Non ci fu nulla da fare. Il Comitato olimpico non accettò l’iscrizione di Carlo Airoldi, che provò a correre lo stesso, ma venne scoperto e fermato da un giudice, e fu costretto a trascorrere una notte in carcere. Il giorno seguente Carlo lanciò la sfida, mai accettata, al vincitore, un greco che arrivò solamente quinto alla seconda eliminatoria ateniese. È facile ricordarsi dei vincitori, così il nome del primo maratoneta della storia, Spiridōn Louis, occupa ancora oggi una pagina importante del grande libro della storia dello sport. La vicenda di Carlo Airoldi, invece, è stata presto dimenticata. Forse è meglio così, perché è giusto che sia stato solo lui, questo straordinario atleta della campagna padana, a poter conservare l’indelebile ricordo di quella straordinaria traversata.

“Dopo tutto mi consolo perché a piedi vidi l’Austria, l’Ungheria, la Croazia, l’Erzegovina, la Dalmazia e la Grecia, la bella Grecia che lasciò in me un ricordo indelebile. Mi consolo pensando agli allori riportati in Francia e Spagna, ma se per quel viaggio partii in giovedì, per questo partii in venerdì e in Venere ed in Marte né si sposa né si parte.”

Il primo vincitore della maratona olimpica.

Nell’agosto del 2004 le Olimpiadi tornarono a casa, infatti la 28esima edizione si svolse proprio ad Atene. La cerimonia d’apertura avvenne nel grande stadio olimpico, mentre quella di chiusura ebbe un’altra location, proprio quello stadio Panathinaiko che accolse festante Spiridōn Louis il 10 aprile del 1896. Nel 2004, poco prima che Atene passasse ideologicamente il testimone a Pechino, lo stadio dei bei marmi attese l’arrivo degli atleti, che erano partiti, all’ora del tramonto, proprio da Maratona. Fu una gara drammatica poiché il brasiliano Vanderlei de Lima, in testa fino a quel momento, venne braccato da un fanatico religioso irlandese, che superò la security greca e fermò, per qualche istante, la corsa dell’atleta verdeoro. I brasiliani dodici anni dopo omaggiarono Vanderlei (giunto infine terzo ad Atene), affidandogli l’ambito ruolo di l’ultimo tedoforo della cerimonia d’apertura di Rio 2016.

Poco più di due ore dopo la partenza da Maratona, il primo a varcare le porte del Kallimarmaron fu un connazionale di Carlo Airoldi, ovvero Stefano Baldini, un emiliano di Castelnovo di Sotto che, dopo aver completato un giro dello stadio, varcò il traguardo in solitaria e con le braccia al cielo. Stefano compì l’impresa che non riuscì a Carlo, ma che sogna e continuerà a sognare qualsiasi atleta: correre e vincere una Maratona all’ombra del Partenone, compiendo lo stesso leggendario tragitto di un emerodromo dell’antica Grecia.

Il giorno seguente la Gazzetta dello sport avrebbe titolato “Dio di Maratona”.