Lo scorso dicembre il quotidiano francese Le Monde ha pubblicato un report secondo cui Israele e Emirati Arabi Uniti starebbero lavorando congiuntamente per arrivare alla soppressione di UNRWA (United Nations relief and work agency for Palestinian refugees in the Near East), l’agenzia delle Nazioni Unite che dal 1948 garantisce sostegno e aiuti umanitari a milioni di rifugiati palestinesi tra Giordania, Libano, Siria, Cisgiordania e Striscia di Gaza. Secondo Israele e Emirati, che la scorsa estate hanno avviato il processo di normalizzazione delle reciproche relazioni economiche e diplomatiche, UNRWA contribuirebbe, col suo lavoro e con le politiche porta avanti, a mantenere aperto il conflitto israelo-palestinese.
L’agenzia, che lo scorso anno è stata colpita da uno scandalo legato a nepotismo e abuso di potere ai propri vertici, con l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca ha visto un drastico taglio dei fondi provenienti dagli Stati Uniti, storicamente i principali donatori a livello mondiale. Già nel gennaio 2020 il capo ad interim di UNRWA Saunders aveva denunciato la mancanza di fondi, arrivando ad accusare non meglio precisate organizzazioni filo-israeliane di fare pressioni su parlamentari di paesi stranieri per fermare i finanziamenti all’agenzia (sospesi, tra gli altri, da Paesi Bassi, Svizzera e Belgio). Nonostante ciò, il mandato di UNRWA è stato prolungato fino al 2023.
Secondo i dossier riguardanti la corruzione all’interno dell’agenzia, a partire dal 2015 vari membri avrebbero cercato di consolidare il proprio potere e la propria posizione lavorativa. Ciò che emerge dalle indagini svolte, tuttavia, è che la situazione è notevolmente peggiorata dopo il 2018, anno in cui sono crollate le donazioni verso l’agenzia. Esisterebbe quindi una stretta correlazione tra il crollo dei fondi e l’aumento della corruzione all’interno di UNRWA.
Il caso di UNRWA, che sta attraversando una crisi finanziaria senza precedenti, è a suo modo emblematico di quello che è stato, a partire dall’insediamento di Donald Trump, il rapporto tra gli Stati Uniti e la maggior parte delle organizzazioni internazionali e delle istituzioni multilaterali. Una relazione che, con l’arrivo alla Casa Bianca del tycoon newyorkese, ha subito assunto contorni conflittuali e che con lo scoppio della pandemia di coronavirus si è trasformata in una contrapposizione frontale.
Nel 2017, a pochi mesi dall’inizio del mandato presidenziale, Donald Trump aveva promesso che gli Stati Uniti si sarebbero ritirati dagli accordi sul clima sottoscritti a Parigi nel 2015 nell’ambito della conferenza COP 21 (la XXI Conferenza delle Parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 1992). Il ritiro è stato formalizzato nel dicembre 2019, e il presidente francese Macron è stato tra i più attivi nel rilanciare la collaborazione tra Unione Europea e Cina per arrivare alla riduzione di emissioni.
I cambiamenti climatici e la necessità di riconvertire l’economia verso un’impostazione più green sono stati sicuramente due dei temi che hanno portato alla (larga) vittoria di Joe Biden alle ultime elezioni presidenziali. Le condizioni dell’integrazione economica tra gli Stati Uniti e il resto del mondo e in particolare il tema dei dazi sugli scambi commerciali sono stati allo stesso modo fin da subito oggetto della personale crociata di Donald Trump nei confronti della comunità internazionale. Il presidente uscente americano, dopo essersi impegnato in una guerra commerciale con la Cina, ha rimesso in discussione l’impalcatura del Nafta (North America Free Trade Agreement), siglato nel 1994 e rivisto in modo sostanziale con la firma dell’USMCA (Accordo Stati Uniti-Messico-Canada), che si concentra in particolare sui temi dell’esportazione delle auto e sulle tariffe di acciaio e alluminio.
La stessa Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) attraversa un periodo di profonda crisi. L’emergere di 3 macro blocchi commerciali (UE, Stati Uniti e Cina), portatori di tre diversi punti di vista riguardo alle politiche economiche da adottare, tratteggia i contorni di un contesto in cui il completo rilancio del multilateralismo non costituisce lo scenario più probabile, come testimoniato dalla sospensione dei lavori della Corte di Appello per le controversie internazionali.
Il rapporto tra Stati Uniti e Unesco è stato storicamente burrascoso. Il ritiro dall’Organizzazioni delle Nazioni Uniti per l’educazione, la scienza e la cultura era già stato annunciato nel 1984 sotto l’amministrazione di Ronald Reagan, e nel 2017 è avvenuto il definitivo abbandono per via del presunto atteggiamento anti-Israele (che ha contestualmente annunciato il proprio ritiro) dell’organizzazione.
La decisione totalmente unilaterale di uscire dall’Accordo sul nucleare iraniano (JCPOA), presa da Donald Trump nell’ottobre del 2017 e poi concretizzatasi nella primavera del 2018 con l’effettivo ritiro statunitense, è quella che forse ha pesato maggiormente sugli equilibri internazionali, almeno nel breve periodo. L’abbandono degli Stati Uniti, che con Barack Obama erano stati i principali promotori della ricerca dell’accordo con l’Iran, è sicuramente una della cause del dominio assoluto dei conservatori nelle elezioni per il parlamento iraniano della scorsa primavera, e la prospettiva è che, alle elezioni di giugno, i falchi avranno vita facile nel riconquistare la presidenza. Con Biden ci potrebbero essere le condizioni per l’avvio di un nuovo dialogo, ma il nuovo equilibrio regionale e il continuo inasprimento dei toni da parte statunitense non costituiscono di certo un’eredità semplice da gestire per il neo presidente.
Il 2020 è stato soprattutto l’anno dell’inizio della pandemia di coronavirus. L’atteggiamento adottato da Donald Trump nei confronti dell’Organizzazione mondiale per la sanità (WHO) è stato fin da subito molto critico ed è culminato con la decisione di abbandonare l’organizzazione, accusata di inefficienza e appiattimento sulle posizioni della Cina. Se per certi versi le critiche di Trump nei confronti del WHO sono fondate, la decisione di uscire, ancora una volta in maniera totalmente unilaterale, dalla principale organizzazione internazionale che si occupa di sanità, presa nel bel mezzo di una pandemia che sta paralizzando l’economia mondiale, è un gesto senza dubbio sconsiderato e che denota scarsa lungimiranza. Biden ha già annunciato la volontà di rientrare nell’organizzazione (per la verità, l’uscita si concretizzerebbe solo nel luglio del 2021), e la speranza è che si possa riprendere a lavorare in maniera concertata con lo scopo comune di uscire quanto prima dalla crisi attuale e di trovare i modi per contrastare in modo efficace eventuali nuove emergenze globali.
Le sfide che l’amministrazione di Joe Biden si trova a dover affrontare sono senza dubbio impegnative e richiederanno una grande capacità diplomatica. I recenti fatti di Capitol Hill, con cui la democrazia americana ha mostrato la propria veste peggiore, rappresentano senza dubbio un precedente che difficilmente potrà essere dimenticato e che rischia di minare la credibilità degli Stati Uniti come paladini della giustizia e dell’ordine costituito. Gli ultimi anni, a partire dalla vittoria della Brexit al referendum del giugno del 2016, sono stati segnati dalla vorticosa crescita dei sovranismi e dal riacutizzarsi del nazionalismo in gran parte del mondo occidentale. L’auspicio è che il nuovo corso democratico possa almeno parzialmente correggere la rotta e che si possa ritornare sul binario della collaborazione tra stati che era stato inaugurato all’indomani del secondo conflitto mondiale.
Un primo segnale positivo in questa ottica è stato raggiunto con la distensione delle relazioni tra Arabia Saudita e Qatar, con la riapertura delle frontiere tra i due paesi e la partecipazione dell’emiro Tamim bin Hamad Al Thani alla sessione annuale del Consiglio di Cooperazione del Golfo nella città saudita di Al Ula. La pacificazione rappresenta un chiaro messaggio nei confronti di Joe Biden, e la speranza è che la stagione dei proclami personalistici e delle decisioni unilaterali possa considerarsi conclusa, almeno per i prossimi 4 anni.