Rassegnati è la rubrica settimanale che seleziona un fatto degli ultimi giorni per provare a mostrare com’è stato riportato dalla stampa italiana. Tra strategie comunicative ed errori, viene svelato il filtro che copre ogni notizia. Oggi parliamo della condanna di Derek Chauvin, l’ex agente di polizia responsabile della morte di George Floyd.
Il 20 aprile Derek Chauvin è stato dichiarato colpevole per la morte di George Floyd, l’uomo afroamericano disarmato ucciso il 25 maggio 2020 durante un arresto. Questo ennesimo episodio di violenza della polizia nei confronti – soprattutto – della comunità nera aveva dato il via a manifestazioni e proteste prima a Minneapolis (in Minnesota), dove il fatto è accaduto, e poi in tutti gli Stati Uniti. Il movimento Black Lives Matter ha così ripreso vigore e si è diffuso anche al di fuori dei confini americani. Il processo contro Chauvin è iniziato il 29 marzo e ha coinvolto 45 testimoni. La sentenza è stata chiara: colpevole per tutti e tre i capi d’accusa. Omicidio involontario di secondo grado, omicidio di terzo grado e omicidio colposo. Ora, secondo il funzionamento del sistema giuridico americano, bisogna attendere una nuova sentenza per conoscere la pena a cui sarà condannato Chauvin. Gli altri agenti incriminati per la morte di Floyd sono Thomas Lane, J. Alexander Kueng, e Tou Thao, che verranno processati ad agosto.
Come ne hanno parlato le diverse testate italiane? Il Post ne fa un’analisi completa, richiamando le proteste di questi mesi e la sistematicità degli abusi della polizia. L’esito del processo non era scontato e il video, in cui viene ritratto l’assassinio di Floyd, ha giocato un ruolo centrale. Vengono poi elencati i motivi per cui questa sentenza è notevole: l’esposizione mediatica del caso, il fatto che l’omicidio sia avvenuto durante il governo Trump e la reazione delle istituzioni, di cui una parte si è schierata a favore della comunità afroamericana. Si cita inoltre, per sottolineare l’unicità dell’evento, che tra i testimoni era presente anche il capo della polizia di Minneapolis, Medaria Arradondo, che ha criticato l’operato di Chauvin in modo netto. Nei casi simili avvenuti in precedenza era raro veder un membro della polizia, a maggior ragione se di alto grado, esporsi in modo così evidente. A ciò si affianca, inoltre, l’indagine federale avviata per comprendere il comportamento della polizia di Minneapolis.
Il Post riporta inoltre la gioia della comunità afrodiscendente americana e l’impatto di questa condanna sulle sentenze future e sul comportamento della polizia. A differenza di altre testate, però, non si ferma qui. Vengono infatti messe in luce le ombre di questa sentenza e cioè il timore che allontani da una riforma dei metodi in uso dalla polizia. A questo proposito si cita il Washington Post, che non ha esitato a sottolineare l’atteggiamento ambivalente di Biden: vicino alla famiglia Floyd, ma ancora restio a modificare l’ostruzionismo parlamentare che lo porterebbe a una riforma della giustizia. La condanna di Chauvin non è una completa forma di giustizia e non è definitiva.
Il Fatto Quotidiano, invece, apre l’articolo citando puntualmente i tre capi d’accusa: omicidio di secondo e terzo grado e omicidio colposo. Si racconta poi che il verdetto è stato raggiunto in un tempo considerato breve (10 ore) e che finita la sentenza Chauvin ha lasciato l’aula immediatamente. L’attenzione della testata va alle argomentazioni sviscerate in tribunale. Viene riportata la scelta della difesa, che propone delle alternative, come causa di morte, all’asfissia provocata da Chauvin: i problemi cardiaci a loro volta provocati da metanfetamine. La testata cita però la replica dell’accusa, avvalorandola: «Blackwell [altro rappresentante dell’accusa (per lo Stato)] ha replicato: “La verità è che George Floyd è morto perché il cuore di Derek Chauvin è troppo piccolo”».
Parte dell’articolo è inoltre dedicata all’arringa finale, in cui si fa appello senso comune della giuria, che per l’accusa significa credere alle prove video, per la difesa non farsi ingannare da esse, ritenute frammentarie. Il processo è quindi in parte spettacolarizzato e in parte spiegato. Sicuramente la scelta è vincente se consideriamo la partecipazione di chi legge, che è sia emotiva che argomentativa. L’articolo si chiude facendo riferimento ai nuovi omicidi delle ultime settimane, come il caso di Daunte Wright, lasciando aperta la riflessione sul futuro della violenza della polizia.
È diversa la strategia del Sole 24 Ore, che analizza il significato della condanna di Chauvin per gli USA e il resto del mondo. L’articolo la definisce infatti «una vicenda-simbolo delle tensioni razziali e delle polemiche sul comportamento della polizia nei confronti della comunità di colore», dove si spera che “di colore” stia per l’inglese of color, usato per identificare tutte le persone non bianche. D’altra parte, però, il termine polemica non rende pienamente giustizia alle manifestazioni scaturite dall’assassinio di Floyd.
La testata fa poi un’analisi della composizione della giuria – «sette donne e cinque uomini; sei bianchi, quattro neri, due che si identificano come multirazziali» – e analizza in breve il fenomeno della violenza della polizia contro la comunità afroamericana. Si riporta infine la presa di posizione delle istituzioni: le riforme auspicate da Biden e gli interventi di Harris, definita però «il vicepresidente». L’intervento sul codice comportamentale della polizia, ora fermo al Senato, è dedicato proprio a Floyd e porta il nome di George Floyd Justice in Policing Act
La Stampa, infine, si sofferma sull’attenzione scatenata da questo caso, un «processo che ha monopolizzato l’attenzione dei media, della politica e dell’opinione pubblica statunitense». L’articolo è più breve rispetto agli altri e si concentra unicamente sulle «urla di gioia e manifestazioni di allegria (sono stati lanciati dollari in aria)» delle persone americane e soprattutto di quelle afrodiscendenti, senza considerarne le preoccupazioni e la necessità di un intervento che indebolisca i comportamenti razzisti a livello sistemico.
Come spesso accade, un unico fatto può essere raccontato in modi diversi. La sostanza resta costante ma, a seconda del punto di vista adottato e degli elementi messi in risalto, chi legge ne trae delle informazioni differenti. Solo unendole è possibile avere uno sguardo d’insieme più completo e sincero sulla complessità dei fenomeni analizzati.