Durante il primo lockdown, una tavola rotonda virtuale di sceneggiatori si chiese che tipo di storie avremmo voluto vedere in tv una volta che fosse “tutto finito”. Era troppo presto per inquadrare un fenomeno dal quale non siamo ancora usciti, ma non per intuire che avrebbe colpito duramente l’industria dell’intrattenimento. E non solo perché bloccava set e studios proprio mentre tutti, chiusi in casa, consumavano più film e serie che mai. Le ipotesi formulate in quell’incontro sul web comprendevano nuovi generi, un modo inedito di fare tv, mai più scene in esterna o senza mascherina. Ma è andata davvero così?
Immagino sceneggiatori e produttori di serie tv affermate che si spremono le meningi, pensando alle nuove stagioni. Che fare? Proseguire come se nulla fosse su un copione già scritto e spostare la storia dalla realtà a un consolante universo parallelo senza covid? Già con le riaperture, si sono visti curiosi espedienti per rispettare le norme di sicurezza senza mettere in scena guanti e FFP2. Per esempio, la terza stagione di Charmed vede i protagonisti colpiti da una maledizione che impedisce loro di toccarsi. Ma sta alla malizia dello spettatore accorgersi dello stratagemma.
L’alternativa era ardua: “esporre al contagio” le proprie storyline e raccontare un soggetto difficile ma epocale. Ci ha provato Grey’s Anatomy, facendo contrarre il covid alla sua protagonista Meredith, e da veterana delle serie medical esplorando la “prima linea” dell’emergenza sanitaria. E ci ha provato anche This Is Us, in modo sfumato, concentrandosi sul quotidiano: mascherine, tamponi, disinfettanti e un episodio dedicato all’invenzione delle videochiamate. Briciole di realismo patinato, per mantenere il legame con l’attualità senza perdere i buoni sentimenti che sono il cuore di questo family drama pluripremiato.
È rischioso raccontare troppo presto le parti più oscure della pandemia. Qualsiasi narrazione risulta offensiva nei confronti dei morti; molti non hanno voglia di vedere l’onnipresente coronavirus anche nelle serie tv che guardano per “staccare”. Non sarebbe più giusto aspettare che il tempo metta tutto in prospettiva, come con un altro trauma globale che ha trasformato i media per sempre, l’11 Settembre 2001?
È innegabile: abbiamo bisogno di parlare del covid, anche nelle serie tv. Ognuno di noi avverte l’esigenza di elaborare la vita in un racconto che abbia inizio, centro e fine. E quando non sappiamo come andrà a finire, il finale si può inventare. È egoista, forse, ma confortante. A questo bisogno hanno risposto alcune serie che, senza parlare di covid, ci hanno spinto a rifletterci sopra.
Il tempismo di The Stand è stato inquietante. Una serie che si apre con una pandemia, proprio nel 2020, per di più firmata da Stephen King? Coincidenza da brivido, ma solo una coincidenza: era in produzione da prima che il virus si diffondesse.
Il discorso cambia per Sweeth Tooth. Tratta dal fumetto di Jeff Lemire, anch’essa prende le mosse da un virus che sembra influenza ma decima la popolazione. Viene da pensare che sia stata prodotta, e poi distribuita su Netflix, proprio perché senza parlarne avrebbe immediatamente fatto pensare al covid.
The Stand e Sweet Tooth usano la pandemia come trampolino per proiettarci in un futuro magico e fantastico, in cui l’umanità sopravvissuta prova a risollevarsi. La prima è horror, con i superstiti che si riuniscono attorno a figure mistiche, profeti o diavoli; la seconda una fiaba in cui l’effetto collaterale del virus è la nascita di bambini metà umani, metà animali. Entrambe offrono speranza e ottimismo, immaginando un futuro in cui la natura riprende i suoi spazi e gli esseri umani possono, come da retorica dello scorso anno, “uscirne migliori”. Soprattutto, però, parlano del desiderio di lasciarsi alle spalle il passato. La malattia, certo, ma anche guerre, ingiustizie, distruzione dell’ecosistema. Come a cercare una ragione che nella realtà non c’è, la finzione trasforma la calamità in punizione karmica. E al tempo stesso, in occasione di redenzione.
In nome della verosimiglianza, gli autori fanno scelte che influiscono pericolosamente sulle nostre percezioni. In Sweet Tooth, il virus si diffonde da un laboratorio che studia microbi preistorici in cerca di un vaccino. E in questi tempi di complottismi, un racconto in cui degli scienziati si lasciano scappare un patogeno letale è più che discutibile. D’altra parte, anni di film d’azione ci hanno regalato il cliché dello studioso accecato dall’hybris che provoca un evento apocalittico a cui l’eroe deve porre rimedio.
Ma nel mondo del covid, il filone post-apocalittico assume una rilevanza diversa. Anziché farci evadere, ci colpisce da vicino, in un modo che può sembrarci scomodo o sinistro. Ma è solo un pretesto per raccontare classici universali. Famiglie d’adozione anziché di sangue; comunità piccole ma unite al posto di quelle enormi ma disgregate in cui viviamo. Avventure che più che con la sopravvivenza hanno a che fare con la natura umana, col contatto interpersonale, con i sentimenti che di solito seppelliamo sotto la mondanità dell’esistenza. Finché qualcosa di più grande non ci costringe a mettere tutto in prospettiva e a ricordare cos’è che conta davvero.
Perciò no, il covid non ha ancora monopolizzato le nostre storie, ma comincia a influenzarle. Sono solo le prime tessere di quello che tra qualche anno potrebbe essere un grande mosaico del nostro tempo. Forse tra qualche anno, guardandoci indietro, noteremo le ingenuità e gli errori nelle serie che guardiamo oggi, ma potrebbero anche servirci a capire meglio i tempi turbolenti in cui viviamo.