Le saghe familiari hanno sempre grande fascino. Ormai da decenni la famiglia tradizionale non è più un riferimento reale, nell’orizzonte capitalista globalizzato impera l’individuo libero e sciolto, i legami familiari sono liquidi, come liquido è tutto il resto: la società, l’amore e tutto ciò che Zygmunt Bauman ha già battezzato. La definizione di famiglia sta prendendo connotati sempre più legati alla scelta, a rapporti orizzontali ed elettivi. E tuttavia la narrazione del legame di sangue continua ad essere potentissima ed avvincente nella tragedia greca come in Gomorra, nel teatro di Shakespeare come in Game of Thrones.

Nella lista delle più appassionanti storie di famiglie si colloca a pieno titolo l’ intenso romanzo della scrittrice ugandese Jennifer Nansubuga Makumbi. Kintu è la storia di un clan e di una maledizione. Il libro comincia in un quartiere malfamato di Kampala, capitale dell’Uganda: è il 2004, Kintu Kamu viene ucciso dalla folla che lo crede un ladro. Con un vertiginoso salto all’indietro ci ritroviamo nel 1750, cent’anni prima della colonizzazione inglese, quando l’Uganda non esisteva come entità politica, al suo posto c’erano cinque floridi regni. Tra questi il più potente era il regno del Buganda, composto da cinquantadue clan di etnia Ganda.  In un scatto di irritazione, Kintu Kidda, patriarca del clan Kintu, dà uno schiaffo al figlio adottivo, Kalema, il cui padre era rwandese di etnia tutsi. Kalema inspiegabilmente cade a terra morto. Gli uomini di Kintu non danno al ragazzo giusta sepoltura, da qui una maledizione che perseguiterà il clan Kintu per generazioni, manifestandosi con morti improvvise, malattie mentali e suicidi. Dal 1750 il racconto balza a piè pari l’era coloniale, per muoversi tra gli anni Settanta e Duemila, seguendo le storie dei discendenti del clan Kintu in epoca contemporanea. Una sezione per ogni protagonista, che rappresenta un ramo del clan, ai quali si affiancano decine di personaggi minori, disegnati con una scrittura magica e chirurgica allo stesso tempo. Nel 2004, dopo la morte di Kintu Kamu, diversi rappresentati dei rami del clan si ritrovano e decidono di porre fine a questa catena di dolore.

Jennifer Nansubuga Makumbi – Ph BEN TORKINGTON/THE CITY PHOTOGRPHER

Jennifer Nansubuga Makumbi è cresciuta a Kampala, oggi vive a Manchester. Ha dedicato dieci anni alla scrittura di questo libro che, nonostante Makumbi avesse già vinto numerosi premi letterari e nonostante si tratti di un materiale narrativo indiscutibilmente potente, non ha avuto una storia editoriale semplice. Pubblicato in Kenya nel 2014, il romanzo fu per molto tempo rifiutato da molti editori perché ritenuto troppo africano: ci sono molti personaggi con nomi difficili da pronunciare, della colonizzazione quasi non si parla e in più di quattrocento pagine di racconto non si trova neanche un bianco.

Kintu è una parola Luganda, lingua bantu parlata in Uganda, che significa “cosa”, o meglio “tutto ciò che non può agire da sé, che si può attivare solo sotto il comando di un muntu“. Muntu è il singolare di Bantu, termine che oltre a indicare il gruppo linguistico significa originariamente “essere umani” o in modo più preciso “una forza dotata di intelligenza: tutti i viventi, i morti, gli dei.” Nell’antica mitologia Buganda, Kintu è il nome proprio del primo uomo. Per il pubblico ugandese il riferimento è chiaro, come se uno scrittore italiano scegliesse di chiamare Adamo il fondatore di una stirpe che porta con sé una macchia originaria che si tramanda a tutti i suoi discendenti. Ma l’orizzonte mitologico è ancora più complesso: appaiono frequenti riferimenti al mito di Cam, figlio minore di Noé che vide le nudità del padre e, invece di coprirlo con rispetto, corse dai fratelli Sem e Iafet a raccontare ciò che aveva visto. Da Cam discende il popolo africano,che questa storia della Genesi condanna per sempre ad essere impuro e maledetto, asservito al popolo europeo, discendente dal virtuoso Iafet. Un’altra storia di maledizione.

Un immagine dal film God loves Uganda (2013). Ph. cineagenzia.it

Makumbi dichiara di scrivere per il pubblico ugandese, perché cominci a guardare alla storia precedente alla colonizzazione, a cos’era l’Uganda prima dell’Europa e della Cristianità. La sua scrittura ha la potenza dell’epica, usa tecniche narrative e materiale della storia orale ma nella prospettiva di un lucido racconto sulla moderna realtà dell’Uganda. Sovverte qualsiasi stereotipo sul rapporto tra tradizioni africane e mentalità europea, qualsiasi immagine statica di un’autenticità africana immobile nel tempo. La contraddizione è la regola,gli opposti convivono. Attraverso le storie, le idee, le parole dei protagonisti ci guida a scoprire nuove strutture di pensiero. O a riconoscere quanto poco vale, anche per noi occidentali, l’univoca fiducia nel pensiero logico.

Nella realtà che Makumbi descrive convivono elementi di tradizione africana ed europea. Chi va in chiesa non è assurdo che vada da un guaritore tradizionale; credere in Dio non impedisce di rivolgersi agli stregoni se necessario; si può essere razionali scienziati e avere un’intensa vita spirituale. Tutti gli aspetti della vita, dalla lingua, alla cucina, ai costumi sessuali, alla salute mentale, vengono negoziati a seconda del contesto. In Kintu ci sono molti elementi magici, che riferiscono a un ordine di realtà non logico-scientifico. Come l’idea che i morti non sono più con noi ma sono comunque con noi. La tradizione occidentale di pensiero divide, distingue il piano di realtà fattuale dal sogno. In una prospettiva ugandese questo problema non esiste: è il racconto di un’esperienza. Nella prospettiva dell’esperienza non è così irreale parlare con i morti. L’ esistenza non è solo materia e l’esperienza del mondo è molto più grande. «Ci sono più cose in cielo e in terra Orazio di quante possa comprenderne la tua filosofia» Shakespeare faceva dire ad Amleto. Esistono tanti livelli del reale, tante vie d’accesso al mondo.

Copertina Kintu, edizione italiana, 66thand2nd

La maggior parte dei personaggi sono uomini ed è curioso leggere da una penna femminile un così attento sguardo sul maschio, biologicamente e culturalmente inteso. La società maschilista patriarcale è raccontata in una prospettiva nuova: le strutture del patriarcato opprimono anche gli uomini. Il capo stirpe, Kintu, è costretto a matrimoni che non desidera e a continui, estenuanti rapporti sessuali per dimostrare la sua virilità. Per sposare la donna che ama deve sposare anche la gemella che detesta. Ogni due per tre qualcuno gli porta la figlia vergine in dono e lui in quanto capo è obbligato a prenderla per moglie. Si definisce «un toro da monta gettato in una mandria di giovenche»; generare figli è il suo dovere, ma è anche una croce che porta di malavoglia:«come poteva esimersi? Era un uomo, un erogatore di seme. Era un atto naturale: doveva provarci gusto». In epoca più vicina Kanani, membro del clan contrario alle pratiche tradizionali e animato da fervente spirito cristiano, si condanna a mangiare schifezze perché la moglie è incapace di cucinare, invidia gli inglesi che possono cucinare senza che la loro virilità venga messa in discussione, né umiliata la femminilità della donna. Una critica delle vecchie strutture – sostiene Makumbi – non può essere completa se non si tiene in considerazione quanto e come anche gli uomini siano stati oppressi o repressi dal patriarcato.

Nella prima sezione, ambientata nel diciottesimo secolo, si parla a lungo, con franchezza ed ironia di questioni legate al sesso, sia in termini di pratiche che di aspettative sociali. In una scena molto divertente, una sorta di addio al celibato,  vediamo gli anziani che istruiscono lo sposo su come “essere uomo” a letto: come riconoscere i suoni di falso godimento, come interpretare i segnali della donna, quante volte in una notte la sposa deve raggiungere l’orgasmo. Si parla anche di omosessualità, tema delicatissimo in Uganda, paese con una delle legislazioni più omofobe dell’Africa, dove nel 2014 è stato emanato l’ Uganda Anti-Homosexuality Act, che sostituiva l’ergastolo con la pena di morte. L’omosessualità non è arrivata con la colonizzazione: l’Europa e il Cristianesimo hanno portato l’omofobia, là dove le strutture sociali pre-coloniali costruivano integrazione.

Gay pride a Entebbe, Uganda. 9 agosto 2019 Ph. ISAAC KASAMANI/AFP

La figura dei gemelli è un altro affascinante tassello di questo grande racconto. «Secondo la tradizione i gemelli identici erano un’anima sola che, non riuscendo a risolvere il conflitto primordiale interno all’Io, si divideva, dando vita a due individui.» La tradizione dei gemelli è parallela alla maledizione. Suubi è perseguitata dallo spettro di una ragazza esattamente uguale a lei. Viene a sapere che la sua sorella gemella è morta nel parto e dunque la sta cercando, sta venendo a prenderla e presto anche lei morirà. Suubi vive invece,ma non si sente viva, non sente di essere, non si sente reale.

Il richiamo a ricostruire una genealogia, così come a medicare le storture dell’albero genealogico viene da un desiderio di futuro. Kintu è un grande libro che vola oltre i confini dell’Uganda. Affronta tutti i temi dell’esistenza e sopra a tutti la costruzione dell’identità prima ancora che etnica o culturale, come fatto esistenziale. Che cos’è l’ uomo? Cosa ci fa essere persona e non più solo cosa?