Era il 16 maggio 1974 quando venne approvata la nuova Costituzione della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. Quel giorno Josip Broz, ai più noto come Maresciallo Tito, divenne presidente a vita.

Il compagno Tito

Tito era diventato una figura preponderante nel panorama politico slavo sin dal secondo conflitto mondiale, quando prese le redini della resistenza diventando Comandante Militare dell’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia.

I partigiani comunisti guidati da Tito divennero il più efficace movimento di resistenza nell’Europa occupata, riuscendo a liberare numerose zone del Paese prima ancora di ricevere aiuti dagli Alleati. Nel 1945, con il supporto dell’Armata Rossa, Tito riuscì a liberare l’intera Jugoslavia.

Alla fine del conflitto la popolarità della quale godeva Tito gli permise di prendersi grandi libertà nei confronti di Stalin. Le loro posizioni erano in contrasto, soprattutto a causa della ferma volontà di Tito di creare una lega balcanica con Belgrado a capo.

Tito e Moša Pijade
Tito e Moša Pijade nel 1942 – Wikipedia

Tra la fine degli anni ’40 e l’inizio dei ’50 Tito venne accusato di deviazionismo dai canoni del regime sovietico, preoccupato per le presunte derive trotzkiste e collaborazioniste capitalistiche, e la Jugoslavia venne espulsa dal Kominform (l’organizzazione che riuniva i partiti comunisti dei Paesi europei).

Furono anni difficili, gli jugoslavi a lungo temettero l’invasione sovietica. Invasione che non avvenne mai grazie all’abile politica estera attuata da Tito, un’idea di società e di socialismo successivamente ribattezzata “Titoismo”.

Il calcio si afferma in Jugoslavia

Forse anche grazie alla tesa situazione sociale e politica, durante gli anni ’50 il calcio in Jugoslavia divenne molto popolare, gli stadi si riempivano e si formavano i primi gruppi di tifo organizzato. Il calcio slavo si fece conoscere anche all’estero grazie a numerose tournée (una su tutte quella del Partizan in Brasile nel 1957, durante la quale il club di Belgrado assunse l’attuale colorazione bianconera).

Lo stesso Tito pare avesse una predilezione per il Partizan, che si guardava bene dal mostrare in pubblico. Vladimir Dedijer, il biografo ufficiale di Tito, ha scritto che:

«Era abitudine di Tito guardare una partita di calcio dopo pranzo. Quando ci sono match importanti possono esserci anche 60mila persone a guardare l’incontro, e Belgrado fa 400mila abitanti. Ma tempo dopo Tito ha smetto di andare alle partite, preferendo leggere i risultati sui giornali. Lo prendevo in giro, lasciando intendere lo facesse perché il Partizan non era in grande forma. Ma Tito non voleva mostrarsi come tifoso del Partizan, perché supportare più squadre è una grande passione degli slavi e lui non voleva urtare i sentimenti dei tifosi di altre squadre».

Un esempio di come Tito vivesse il rapporto tra calcio e politica ci viene dalla vigilia della partita tra URSS e Jugoslavia alle Olimpiadi di Helsinki del 1952. Dopo un primo, incredibile pareggio per 5 a 5 la partita venne ripetuta.

Prima del match i giocatori russi vennero minacciati di deportazione in Siberia in caso di sconfitta. L’allenatore si vide costretto a condurre sessioni straordinarie di allenamenti e a modificare la formazione per seguire le indicazioni di regime. Tito e i dirigenti jugoslavi si limitarono ad augurare buona fortuna ai propri giocatori ricordando loro l’importanza geopolitica dell’incontro tramite un semplice telegramma. La Jugoslavia vinse per 3 a 1.

Le proteste nate negli stadi

Una conseguenza della passione calcistica degli slavi fu la nascita di numerosi gruppi di tifo organizzato. A Spalato, nel 1950, nacque la più antica tifoseria d’Europa, la Torcida, e con il passare del tempo (grazie anche alle vittorie slave nelle coppe europee) sempre più gruppi videro la luce, mossi non solo dalle passioni calcistiche.

Le tifoserie si spostarono ben presto dalle gradinate degli stadi alle strade e alle piazze, e i cori di incitamento per la propria squadra si trasformarono in grida di protesta con il governo socialista o in inni nazionalistici, in una scia di rancore che sfocerà poi nelle lotte fratricide degli anni ’90.

Per decenni Tito tenne a bada il clima infuocato con il pugno duro, utilizzando lo stesso calcio come arma di propaganda. Gli incontri di campionato erano l’unico sfogo per una popolazione che si sentiva oppressa e che trovava negli stadi l’unico luogo dove la politica poteva essere affrontata senza censure. Gli striscioni sugli spalti divennero una voce di protesta politica, che grazie agli ottimi risultati delle squadre slave poteva fare il giro di tutta Europa.

Non solo il Partizan Belgrado, che perse la finale di Coppa dei Campioni del ’66 contro il Real Madrid di Francisco Gento (che vinse da capitano la sua storica sesta Coppa dei Campioni, record ancora imbattuto), ma anche la Stella Rossa di Belgrado e la Dinamo di Zagabria ottennero buoni risultati in campo europeo durante gli anni ’60 e ’70.

A questo si aggiungevano le convincenti prestazioni della Nazionale che, anche se a fasi alterne, riusciva a esportare per il mondo bel calcio condito da buoni risultati (un quarto posto ai Mondiali del 1962, due finali europee perse e il rammarico per una semifinale persa negli Europei casalinghi del 1976).

Le aperture di Tito

Tito sfruttò le vetrine concesse dal calcio per far conoscere al mondo una Jugoslavia inaspettata, con una propria linea, ben definita ma diversa da quella del blocco sovietico, che non spaventava gli Alleati. In seguito alla morte di Stalin intraprese una politica di riavvicinamento all’URSS.

Successivamente riunì sotto un unico movimento i paesi non allineati con i due blocchi e strinse importanti rapporti diplomatici con i Paesi del Terzo Mondo, culminati con la Conferenza di Bandung nel 1955. Tito era un leader ben visto e la Jugoslavia sembrava essere una terra sana e forte.

I leader Nasser (Egitto), Nehru (India) e Tito (Jugoslavia) -Radio Free Europe

Con il tempo il popolo slavo acquisì sempre più diritti: i cittadini potevano viaggiare in tutto il mondo senza limitazioni e potevano lavorare nei Paesi dell’Europa occidentale; le frontiere vennero aperte agli stranieri; venne incentivata l’impresa privata e si allentarono i nodi alle restrizioni sulla libertà di parola e di culto.

Ma i cittadini jugoslavi volevano altri tipi di aperture. Quando la musica rock approdò nel Paese per molti fu una liberazione, un nuovo modo per esprimersi. Gruppi come gli Indexi (dopo di loro venne chiamato Indexi il più importante premio musicale bosniaco), o i Bijelo Dugme di un giovane Goran Bregović, sfruttavano le canzoni per chiedere più libertà artistiche ed economiche.

La Croazia su tutte chiedeva maggiore autonomia e, nonostante ulteriori aperture e concessioni nel 1971, Tito (dopo essere stato nominato Presidente per la sesta volta) non riuscì a tenere a bada quel movimento, che prese molta della sua forza dagli stadi e dai gruppi di tifosi organizzati, che prese il nome di «Primavera Croata».

L’allontanamento dalle scene

Il biglietto da visita di Tito
Il biglietto da visita di Tito – Wikipedia

La repressione fu dura, anche se tempo dopo alcune delle richieste dei manifestanti vennero accolte. Con la nuova Costituzione del 16 maggio 1974 il neo presidente a vita Tito trasformò la Jugoslavia da Repubblica Federale a Stato di Repubbliche Confederate.

Con queste concessioni il Maresciallo iniziò un progressivo allontanamento dalla vita politica, forse consapevole di non poter tenere uniti dei popoli per sempre. Difatti le nuove libertà ebbero come conseguenza l’inizio delle divisioni tra gli Stati, con la crescita di movimenti anticomunisti e antiserbi.

Tito dedicò gli ultimi anni della sua vita a cucire rapporti stabili con le leadership di tutto il mondo, dalla Cina agli Stati Uniti. La Jugoslavia, nella sua nuova forma, non si sentiva libera ma credeva di poterlo essere.

Tito in Cina nel 1977
Tito in Cina nel 1977 – everydaylifeinmaoistchina.org

Le squadre slave crebbero in quegli anni, i tifosi giravano per l’Europa e le curve diventavano sempre più tribuna politica, megafono del malcontento. Non a caso proprio negli stadi nasceranno i gruppi armati che metteranno a ferro e fuoco la Jugoslavia degli anni ’90. Ma era ancora presto per tutto questo, perché nonostante tutti i dissapori la figura del Maresciallo Tito vegliava sul popolo slavo.

Il pianto disperato dello stadio di Poljud

Certo, la nazionale jugoslava di quegli anni non era la più forte mai vista, ma di sicuro parte delle non brillanti prestazioni mostrate sui campi derivavano dai conflitti presenti anche negli spogliatoi tra croati, serbi, macedoni, sloveni, bosniaci e montenegrini.

E il calcio era forse l’unico contesto nel quale l’unione zoppicante di questi popoli si palesava. Molte tifoserie erano nemiche più per questioni ideologiche che sportive. Come l’Hajduk di Spalato o la Stella Rossa di Belgrado, rispettivamente simboli dei nazionalismi croati e serbi.

Proprio queste due formazioni, il 4 maggio del 1980, erano in procinto di scontrarsi in un match di campionato che si preannunciava, come sempre, molto teso. Lo Stadio di Poljud dell’Hajduk campione in carica era gremito, la Torcida era calda e quasi 50mila persone sugli spalti emisero un boato al fischio d’inizio del match.

I cori e gli incitamenti durarono però poco, neanche un tempo. Alle 19:12, con la prima frazione giunta al minuto 43 con la Stella Rossa in vantaggio per 1 a 0, la partita venne interrotta. Tre uomini entrarono in campo e ordinarono all’arbitro, il bosniaco Husref Muharemagic, di richiamare i giocatori nel cerchio di centrocampo. C’era un annuncio da fare.

Nel silenzio di uno stadio che temeva quella notizia da troppo tempo risuonarono poche parole dagli altoparlanti. Pare che la voce sia stata quella di Ante Skataretiko, presidente del Consiglio esecutivo di Spalato, ma poco importa.

Il compagno Tito era morto. La tv jugoslava mostrò immagini di un clima surreale, giocatori, arbitri e dirigenti in lacrime al centro del campo e decine di migliaia di persone che spontaneamente intonarono una canzone partigiana nata durante la guerra, «Druže Tito, mi ti se kunemo (Compagno Tito, non ti tradiremo)».

Il ricordo di Tito

Uno dei giocatori in campo, Zlatko Vujovic, gemello e compagno di squadra di Zoran in quell’Hajduk, disse tempo dopo in un’intervista:

«Chiunque dica di non aver pianto per Tito sta mentendo. Ci sono registrazioni, foto, video. Non c’è scampo dalla storia, né c’è motivo per farlo. Mio fratello Zoran è caduto in ginocchio per il dolore, ha pianto molto. Ci siamo seduti fianco a fianco con tutti i giocatori di entrambe le squadre. È stato difficile per tutti noi»

Per poi aggiungere, a proposito dell’incontro, che «a nessuno importava del calcio, la partita è stata rinviata. Tornai a casa e facevo parte di quella processione di 50mila persone confuse. Incredibilmente, nessun fischio, sirena, grida furono uditi in quella confusione. Un’atmosfera terribile ha prevalso. Ci siamo tutti chiesti: cosa succederà al nostro Paese dopo Tito? Chi ci condurrà?»

Uno dei giocatori della Stella Rossa invece, il centrocampista Boško Ǵurovski, intervistato nel documentario Таа тажна сплитска ноќ («Quella triste notte di Spalato»), ricorda quella sera come «un momento terribile. Sapevamo tutti che Tito stava per morire, ma la notizia ci ha distrutto. Ho pianto come la pioggia. Era bello vivere ai tempi di Broz e non si vedeva chi fosse macedone, croato, serbo, sloveno o bosniaco. Non avremo mai più un tale senso di unità».

I funerali di Tito
I funerali di Tito – steemit.com

Ai suoi funerali, l’otto maggio, parteciparono rappresentanti di 128 nazioni da ogni parte del mondo e migliaia di persone, comprese le delegazioni di tutte le squadre calcistiche jugoslave. È stato il più imponente funerale della storia (sulla base delle rappresentanze e delle delegazioni), eguagliato solo nel 2005 da quello per Giovanni Paolo II. Il giorno dopo la morte di Tito il New York Times scrisse:

«Tito ha cercato di migliorare la vita. A differenza di altri che salirono al potere sull’onda comunista dopo la seconda guerra mondiale, Tito non pretese a lungo che il suo popolo soffrisse per una visione lontana di una vita migliore. Dopo un iniziale periodo tetro di influenza sovietica, Tito passò al radicale miglioramento della vita nel paese. La Jugoslavia divenne gradualmente un punto luminoso tra il grigio generale dell’Europa orientale».

Purtroppo, con il senno di poi, il canto dello stadio di Poljud è stato vano. Certo non si parla del paradiso in terra, anche sotto Tito c’erano gravi violazioni dei diritti umani e delle libertà fondamentali, specialmente nelle prime fasi della sua gestione.

Ma quello che il Maresciallo desiderava a tutti i costi era un popolo unito sotto un unico ideale e una solo bandiera, in un Paese dove ognuno poteva essere diverso e allo stesso tempo fratello. Purtroppo il suo sogno non ha resistito a lungo, portato via dalla guerra che negli anni ’90 ha dilaniato quel poco che restava della sua Jugoslavia. Ma questa è un’altra storia.

Per la cronaca, la partita tra Hajduk e Stella Rossa fu ripetuta 17 giorni dopo e la squadra di Belgrado vinse 1-3, mettendo al sicuro il titolo del campionato 1979/1980.

BIBLIOGRAFIA

Footballslavia – Danilo Crepaldi

https://off.net.mk/offside/fudbal/tazhniot-den-na-jugoslovenskiot-fudbal-vo-split

https://sr.wikipedia.org/wiki (Смрт и сахрана Јосипа Броза Тита)