Un mese fa un articolo del Guardian a cura di Ed Aarons, Romain Molina e Alex Cizmic ha acceso i riflettori su un piccolo paese caraibico che dista un’ora di volo da Miami, ma raramente cattura l’attenzione dei media mondiali. Eppure, nel bene e soprattutto nel male, la storia di Haiti sarebbe ricca di spunti d’interesse.

E’ stato il primo paese nero della storia a rendersi indipendente, è lo stato più povero del mondo occidentale, l’unico francofono delle Americhe. L’eccezionalità di Haiti è la base per i normali interessi politici dei suoi “colonizzatori”, passati e presenti. Un’isola dimenticata, della cui esistenza troppo spesso il mondo sembra scordarsi. Salvo rare e preziosissime eccezioni.

Il presidente della Federazione calcistica haitiana, Yves Jean-Bart – Alexandre Schneider / Getty Images

«Il senso d’impotenza nell’ascoltare le testimonianze delle vittime lascia senza parole. Abbiamo documentato una vicenda sconvolgente, ma non abbiamo intenzione di mollare. Andremo avanti fino a quando non verrà fatta completa chiarezza, fino a quando le vittime non otterranno giustizia».

Alex Čizmić è un giornalista freelance, vive nelle Marche, ma è perfettamente poliglotta. Ha lavorato con un team internazionale all’inchiesta che ha fato luce su una vicenda oscura che ha scovato un’sistema di violenza radicato nell’isola dimenticata da dio e dagli uomini.
In un team internazionale con il giornalista franco-spagnolo Romain Molina e l’inglese Ed Aarons, ha dato vita a un’inchiesta che ha ricostruito cinque anni – «ma siamo di fronte a un problema endemico, che risale a decenni fa» – di violenze ad opera del presidente della Federazione calcistica di Haiti ai danni di giovani calciatrici. «Testimonianza dopo testimonianza ci siamo resi conto della portata degli abusi. Speriamo che quest’inchiesta possa portare giustizia alle vittime». Qualcosa sembra essersi mosso, se recentemente la Fifa ha deciso di sospendere per 90 giorni Yves Jean-Bart, «aveva messo in piedi un vera e propria rete di abusi, iniziata negli anni Settanta con la nascita del primo club femminile haitiano».

Dadou, come è soprannominato il plenipotenziario del pallone isolano, è alla guida della federazione dal 2000, in vent’anni ha messo in piedi una sistema clientelare di potere, incentrato su favoritismi e violenze. «Il presidente è in buona compagnia in uno scandalo che coinvolge dirigenti e personaggi collegati alla Federazione».
Un ricorso abitudinario alla violenza e all’abuso, che diventa usanza in una società tremendamente misogina e abituata all’impunità.
Come era tristemente lecito aspettarsi, in una società gravemente misogina come Haiti, qualche settimana dopo le stesse vittime accusano minacce di morte ricevute da parte dell’entourage del presidente. Storia conosciuta ad Haiti, dove ingiustizie e corruzione sono una piaga soffocante che permette la sperequazione di risorse nelle mani di politici e di una ristretta élite, legati visceralmente agli interessi speculativi di altre nazioni.

Port-Au-Prince, Haiti, dopo il terremoto del 2010 © Reuters

In un paese dove circa un quarto dei 10 milioni di abitanti vive in uno stato di indigenza alimentare e non ha accesso a servizi di base quali acqua e sanità, la protezione dei diritti umani è un concetto ancora astratto. Nella società haitiana, fortemente patriarcale e discriminatoria verso le donne, in ambito familiare, lavorativo e istituzionale, poter prevenire e trattare i crimini subiti dalle vittime di violenza sul genere è ancora molto difficile, soprattutto quando l’accaduto coinvolge un pezzo grosso del calcio, al comando della federazione calcistica nazionale da inizio millennio. L’accaduto è solo lo specchio di una società fortemente corrotta, in cui la regola vigente è “si salvi chi può”, come dicono gli haitiani quando si mettono al volante, una lotta alla sopravvivenza.

A 10 anni dal terremoto che ha devastato l’isola, Haiti rimane lo stato più povero del mondo occidentale e si trova ad affrontare una crisi politica ed economica senza precedenti. Le proteste della popolazione contro il governo, che non riesce a garantire servizi di base quali acqua, cibo ed elettricità, bloccano il paese da più di un anno a seguito dell’affare Petrocaribe. L’ennesimo scandalo di corruzione sui fondi governativi, che questa volta interessa 2 miliardi di dollari, spariti da un programma di petrolio scontato prestato dal Venezuela, che avrebbero dovuto servire allo sviluppo del paese e al finanziamento di programmi sociali.

Dove sono finiti gli aiuti umanitari che hanno ricoperto lo stato a seguito del terribile sisma del 2010? Che interessi girano su Haiti e più specificatamente che ruolo hanno avuto e vogliono avere in tutto questo i vicini americani? 

Proteste ad Haiti, 2019. © AFP

Molti sono i fattori che influenzano la dinamica storica di un paese. Nel suo saggio Collapse: how societies choose to fail or succeed Jared Diamond riconosce cinque fattori che determinano la riuscita o il collasso di una nazione:

  • I) il danno che i popoli causano al loro territorio
  • II) il cambiamento climatico della terra
  • III) la presenza di popoli nemici allo stato e viceversa
  • IV) popoli amici
  • V) la risposta delle società ai loro problemi.

Il caso di Haiti è abbastanza semplice da analizzare. È facile riconoscere nel rapporto sregolato con l’ambiente circostante la causa del fallimento dello stato. Una devastazione ambientale perpetrata inizialmente dai colonizzatori europei e in seguito da un susseguirsi di leader locali avidi. Il territorio è stato reso improduttivo da un feroce disboscamento e dalla mancanza totale di politiche protettive delle risorse naturali.
Negli anni, l’elenco dei disastri ambientali che hanno interessato il paese – terremoti, uragani, inondazioni e forte siccità – causati da fenomeni climatici intensificati dall’attività umana, sono noti. Risulta evidente anche l’inadeguatezza delle azioni politiche intraprese dalla classe dirigente haitiana. Pochi i presidenti che si discostano dallo spietato ritratto di corruzione e clientelismo per cercare di migliorare le condizioni del paese.
Le risorse a disposizione di una società civile che fa del suo meglio, sono troppo poche, irrisorie rispetto a quelle di cui dispone la classe dirigente.
Occorre infine considerare un punto cruciale: la relazione di Haiti con gli altri popoli, amici o nemici che siano.

Quali forze mantengono lo status quo di Haiti? Quali interessi sono realmente nascosti? A cosa può portare l’analisi di un paese di cui nessuno apparentemente si interessa? Un’osservazione più attenta delle relazioni di Haiti con gli altri stati, può fornire lo spunto per capire meglio le dinamiche dell’isola che si affaccia nel “giardino di casa” degli Stati Uniti. Quella di Haiti è una storia di dominazione straniera e abbandono.

PRIMA E DOPO LA RIVOLUZIONE 

 © Histoire de Napoléon, by M. De Norvins, 1839

Fu Cristoforo Colombo nel 1492 a scoprire l’isola che riteneva essere la porta dell’India: un pezzo di terra emerso tra una placca terrestre e l’altra nel golfo del Messico, che seguendo logiche da conquistadores, fu chiamata “Hispaniola”. 

I nativi Tainos non sopravvissero all’iniziale invasione, decimati da malattie occidentali sconosciute. Il clima e il territorio erano propizi alla coltivazione della canna da zucchero, mancavano le risorse umane, vennero presto condotti in massa dall’Africa migliaia di schiavi, che resero presto il piccolo territorio caraibico una colonia molto redditizia.

Lo sbarco di Cristoforo Colombo sull’isola Hispaniola

Ad intervallare le mire spagnole sul Nuovo Mondo accorsero i francesi che si insediarono nella parte occidentale dell’isola. Nel XVIII secolo resero Saint Dominque, la colonia più redditizia di tutto il loro impero, grazie alla canna da zucchero.

Nei primi anni del XIX secolo, mentre l’occidente respirava l’aria delle grandi rivoluzioni, l’impero coloniale francese nel Nuovo Mondo era allo stremo. La rabbia prese il sopravvento, e gli schiavi di Saint Domingue conquistarono la loro indipendenza. I rivoluzionari ribatezzarono il paese “Haiti“, un appellativo Tainos che significa “Terra dalle alte montagne”. Un sommovimento pagato a caro prezzo. 

I francesi, dopo l’indipendenza proclamata dal paese nel 1804, riconobbero Haiti soltanto nel 1825, imponendo agli ex schiavi una compensazione di 150 mila franchi d’oro, equivalente a 17 bilioni di euro attuali. Il debito fu massacrante per una nazione senza fondamenta e devastata da 13 anni di guerra. Lo stato haitiano finì di pagare il suo debito soltanto nel 1947. Per gli ex schiavi, la cui unica identità comune di nazione si basava sul sentimento di ribellione verso i colonizzatori, la ricostruzione iniziava in salita e non libera da ingerenze straniere.  

Rivolta degli schiavi a Santo Domingo – Wikimedia

Ben presto gli Stati Uniti, freschi della propria rivoluzione coloniale, gettarono le basi per la loro futura egemonia. Preoccupati di ciò che una rivoluzione nera avrebbe scaturito negli animi dei propri preziosi schiavi, le 13 colonie indipendenti non riconobbero Haiti per quasi 70 anni, limitandone gli scambi economici. 

Sconvolti da secoli di schiavitù e dominio europeo, gli Haitiani partorirono una costituzione che proibiva agli stranieri di investire o possedere terre sul territorio nazionale, un documento che rispecchiava il rigetto per l’ingerenza esterna che la nazione si porterà dentro per sempre, base per l’identità interna e l’immagine internazionale del paese.

I Marines americani marciano su Haiti © Getty Images

Durante l’800, l’interesse a stelle e strisce per la regione caraibica divenne altissimo. La nazione del “destino manifesto” guardava ad Haiti come base navale strategica. Preoccupati dei legami ancora forti con i vecchi coloni francesi, gli Stati Uniti occuparono militarmente Haiti dal 1915 al 1934, riscrivendone la costituzione in modo da avviare i propri investimenti sull’isola. L’occupazione fu un massacro, con 15 mila haitiani uccisi nel violento spegnimento della ribellione. Gli americani se ne andarono nel 1934, ma il controllo sulle finanze haitiane durò fino al 1947. Mentre in Europa si parlava di risveglio democrazia e nuove basi per la libertà dei popoli, sotto il sole dei Caraibi gli Stati Uniti ingrandivano il loro impero, assoggettando la sfortunata isola.

Si dice che non si possa considerare la storia haitiana senza considerare la sua relazione con gli USA. Non contenti delle interferenze economiche, gli Stati Uniti ritornarono ad occupare il paese nel 1994, sotto la presidenza Clinton. Sono gli anni dell’impegno militare americano nel mondo con interventi militari, sotto la bandiera della democrazia, dai dubbi risultati in Iraq, Somalia, Haiti e Serbia.

Marines americani a Limbe, Haiti. 1994 © Martin Albright

L’invio ad Haiti di 25.000 uomini, a seguito di un colpo di stato ai danni del presidente Jean-Bertrand Aristide, venne così motivato: «è nostro compito ripristinare il governo democratico ad Haiti». L’operazione chiamata “Operation Uphold Democracy” raggiunse lo scopo prefissato: riportare al potere Aristide. Per quanto il ripristino della democrazia, la storia ci racconta di un’azione americana infruttuosa, anzi, che ha peggiorato una situazione già delicata. Al punto che nel 2004 lo stesso governo fu di nuovo rovesciato dall’opposizione.

La realtà è che il sostegno americano al ritorno di Aristide fu temporaneo. Teologo della liberazione, auspicava una «condivisione di ricchezze e di potere tra tutti», ha incontrato un supporto solo di facciata da parte degli Americani e delle élite locali, che in realtà guardavano con sospetto il presidente del paese a cavallo dei due millenni. La moneta di scambio con cui gli USA negoziarono il supporto del presidente fu un accordo con il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. Aristide dovette accettare, consapevole che avrebbe legato Haiti alle politiche di aggiustamento strutturale, aprendo il mercato nazionale al commercio estero con il risultato di obbligare l’isola a importare la maggior parte dei suoi prodotti alimentari. Haiti tornò nel dimenticatoio dopo il “successo” dell’intervento americano, e l’élite sempre più legata all’economia americana, corrotta e con doppio passaporto, tornò indisturbata a controllare il paese. Le risorse dell’isola rimasero nelle mani di poche famiglie legate da una rete di mutua protezione e supportate dal vicino a stelle e strisce.

Aristide 18 Marzo 2011. © AFP PHOTO/HECTOR RETAMAL

L’ISOLA TREMA

Sono passati 10 anni dal terribile terremoto d magnitudo 7.0 che il 12 gennaio 2010 causò più di 200.000 vittime, puntando brevemente i riflettori sul paese.
5 miliardi e mezzo di dollari furono riversati nelle casse del paese per la ricostruzione. A 10 anni di distanza è difficile credere che sia stata sborsata una somma simile per uno stato che sembra ancora al punto di partenza. L’opinione pubblica punta il dito sui leader e sull’endemica corruzione. Un’affermazione sempre valida. Ma le logiche degli aiuti umanitari e per lo sviluppo vincolano i fondi a numerosi controlli da parte dei finanziatori. Si può affermare con ragionevole certezza che a impedire il corretto utilizzo dei fondi da parte del governo haitiano abbia in gran parte contribuito il controllato sulle erogazioni da parte di Stati Uniti e Francia? La realtà di una macchina complessa che coinvolge tante organizzazioni poco coordinate tra loro, per programmi “top-down”, slegati dalla realtà del paese e troppo a corto termine, rende difficile la sostenibilità dei fondi.

Villaggio di Morne Cabrit, a pochi km dalla capitale. Costruito nel post terremoto con 44 milioni di $, provenienti dal programma Petro Caribe. Un esempio di ricostruzione top-down non sostenibile

Secondo alcune fonti il governo haitiano avrebbe potuto disporre solamente dell’1% dei fondi umanitari destinati nel 2010, il restante 99% sarebbe stato controllato dai programmi delle agenzie umanitarie che operano nel paese.
Ancora una volta si è ripetuta la triste storia dell’isola, gli Haitiani sono stati abbandonati a una ricostruzione senza controllo, guidata dalla coalizione umanitaria franco-americana.
Che gli stati stranieri non stiano replicando sotto l’etichetta dell’aiuto umanitario logiche neo-coloniali? Si può affermare che le potenze occidentali, soprattutto gli Stati Uniti, stiano utilizzando gli aiuti a protezione e mantenimento dei propri interessi economici? Qual è l’interesse dietro al controllo di una nazione come Haiti nel XXI secolo? 

L’élite haitiano-americana e gli Stati Uniti stessi traggono grande vantaggio dal disporre di una popolazione molto numerosa e affamata. La manodopera a basso, bassissimo, costo copre grandi importazioni di prodotti agricoli, tessili e del settore automobilistico. I parchi industriali del paese, dove si producono i prodotti che poi si ritrovano a prezzi stracciati da Wal-Mart e altri malls americani, sono “non luoghi“, dove migliaia di persone sono obbligate a lavorare in condizioni quasi disumane, con paghe minime, senza sicurezze né diritti. Il caldo è soffocante. L’elettricità che tiene in vita queste fabbriche manca in molte altre parti del paese. È frutto degli aiuti americani post terremoto, una centrale elettrica da 10 megawatt costruita proprio con fondi USAID, agenzia di sviluppo internazionale americana. I salari minimi (5 dollari al giorno) non sono abbastanza per coprire il costo della vita o contribuire a un qualche sviluppo al paese. Al contrario, il richiamo di un posto di lavoro ha portato migliaia di persone a trasferirsi nella capitale, abbandonando le campagne agricole e creando nuove bidonville che aumentano vulnerabilità e miseria.

Lavoratori nella fabbrica di Hanes ad Haiti © Jude Stanley Roy/IPS

Siamo ormai lontani dall’occupazione militare americana, ma la lunga mano a stelle e strisce riesce ancora ad approfittare di un paese dimenticato dal mondo, sfruttando la crisi a vantaggio degli interessi economici. 

L’autunno 2019 è stato il momento in cui Haiti ha più che mai mostrato il bisogno di stabilità e sicurezza, anche la missione per il supporto alla giustizia.
Eppure Minujusth, l’ex missione per la stabilità delle Nazioni Unite, Minustah, principalmente finanziata da Stati Uniti e Francia, è uscita di scena.
Jovenel Moise, il presidente in carica, ha affermato: «Haiti non presenta più un pericolo alla pace regionale né mondiale», come se in passato lo avesse realmente rappresentato. La missione, mandata nel paese dal consiglio di sicurezza ONU a seguito del colpo di stato ai danni del presidente Aristide nel 2004, è stata sostituita nel 2017 e rimpiazzata due anni dopo dalla BINUH, che ha lo scopo di sostenere il governo nel mantenimento della giustizia e della stabilità politica. Questa partenza sottolinea la volontà di una transizione dal peacekeeping alla governance che tuttavia sembra solo un’apparenza.
Lo stato di grave crisi politica ha fatto rivolgere lo sguardo del paese ad altri aiuti.

FONTI 

Diamond J., Collapse: How societies choose to fail or succeed, Viking Press, 2005

Marshall T., Prisoners of geography, Elliot & Thompson, 2015

Wheeler T., Fuori rotta, Lonely Planet, 2013