a cura di Alessandro Albanese Ginammi

Per analizzare la politica estera e di difesa comune attuale, dobbiamo partire dal trattato di Maastricht, quando nel 1992 è stata istituita la politica estera come un pilastro dell’Unione. Di fatto, occorre analizzare come da trent’anni a questa parte ci si trovi di fronte a un fallimento. Dalla fine del vecchio millennio, con le crisi nei Balcani, l’Unione europea non è stata in grado di costruire una politica estera comune. Non lo ha fatto nei Balcani, in Medio oriente, con le Primavera arabe o nel Mediterraneo, fino a tutti gli scenari caldi attuali ai suoi confini: dall’Ucraina alla Libia.

La ratifica del Trattato di Maastricht

Cosa origina questa incapacità di parlare con una voce sola e di compiere azioni univoche? Perché mettere d’accordo quelle che ormai sono 27 voci è una missione impossibile. La storia dell’Unione mostra come l’unica cessione di sovranità da parte degli stati membri sia stata l’euro, originando il paradosso della cessione di sovranità monetaria senza aver lasciato spazio a una cooperazione politica all’esterno, dove gli stati continuano ad avere agende, interessi ed eserciti nazionali. Nella Ue come nella Nato, tutti sembrano perseguire degli obiettivi di politica estera individuali.

Lo stato attuale delle cose ci pone di fronte a due evidenze: l’esercito comune è ormai un sogno, sarà difficilissimo vedere nell’arco di una generazione la costruzione di una forza armata europea. Si continueranno invece a svolgere missioni comuni, sotto l’ombrello della Nato o dell’Onu, coordinate dall’Unione europea che mette insieme più paesi. I fatti dimostrano che l’accordo sulle missioni all’estero si trova solo tra alcuni stati membri, incontrando quasi sempre il disinteresse di altri. Sarebbe dunque opportuna una formula elastica per la politica estera, per permettere ad alcuni paesi di tirarsi fuori o di essere coinvolti in maniera differente. Sarebbe utile uno schema che permetta di impegnarsi in politica estera prendendo decisioni operative senza essere vittime di veti. Cedere sovranità significa abbandonare il voto all’unanimità per fare spazio a votazioni a maggioranza, cosa che ad oggi all’Ue non è ancora riuscita. Le tempistiche della politica estera, inoltre, spesso non permettono la continua contrattazione per mettere tutti d’accordo.

Oggi l’Unione europea si trova di fronte a una sfida che è quadruplice: alla crisi identitaria in seguito alle difficoltà post-allargamento nel 2004, si sono aggiunte quella economica dal 2008, quella politica culminata con la Brexit e infine quella sanitaria con la pandemia. Può essere il momento giusto per fare il salto di qualità, cedendo sovranità e il voto all’unanimità per costituire un vero soggetto in politica estera, con forme di geometria variabile che possano rendere nuovamente operativa l’Unione europea.

I 27 paesi hanno i loro confini in ebollizione e le acque del Mediterraneo appaiono come un continuo terreno di scontro, sono tantissimi i dossier caldi irrisolti e all’orizzonte sempre più paesi extra-europei si affacciano come potenziali minacce. L’Ue è però fatta da 27 paesi che hanno tra di loro diverse priorità in politica estera. Per esempio, i paesi del sud hanno in cima all’agenda la sicurezza del Mediterraneo, i baltici e dell’est guardano prima alla minaccia russa. La posizione geografica dei singoli stati determina gli interessi geopolitici, sancendo i fronti prioritari e rendendo secondari altri scacchieri.

Il contesto globale sta cambiando, è in corso uno scontro tra tre grandi potenze globali per accaparrarsi territori, alleati e risorse in Europa.

Gli Stati Uniti, la prima potenza militare mondiale che ha come spazio d’azione prediletto innanzitutto il vecchio blocco occidentale della Nato, da tempo – ben prima di Trump – ha avviato un ripensamento della strategia globale. Al ridimensionamento militare non farà però seguito quello strategico. Gli Usa manterranno sempre la loro presenza logistica, di intelligence e commerciale a supporto del loro “impero liberale”. Agli interessi strategici si sono aggiunte questioni tecnologiche che non fanno presupporre un allentamento della presenza americana in Europa e nel Mediterraneo. Questo deve però dare un input all’Unione europea per creare una propria identità continentale, diventando protagonista nel proprio “spazio vitale”, approcciando le minacce globali e quelle locali.

In Europa, gli Stati Uniti si fanno sentire forte e chiaro, soprattutto dai paesi che strizzano l’occhio verso l’altra grande superpotenza globale: la Cina. L’Italia è particolarmente esposta, anche per pecche comunicative della nostra diplomazia che la mettono spesso nell’occhio del ciclone. La Germania gode di ottime relazioni economico-commerciali con la Cina, eppure non se ne parla come di un terreno di conquista di Pechino. Non sono poche le amministrazioni che sembrano scivolare troppo nell’orbita cinese, apparentemente meno eclatante ma pur sempre pressante nel cercare di controllare spazi di potere nel Vecchio continente. Pensiamo alla tecnologia, l’ambito dove forse si gioca la partita più delicata. Le tecnologie cinesi sono a buon mercato ma il nocciolo della questione è la sensibilità dei dati, con l’apparecchiatura cinese che non garantirebbe una completa tutela della riservatezza dei dati sensibili, soprattutto a detta degli americani. Questo vale per il 5G, per i cellulari Huawei e per le apparecchiature aziendali cinesi.

In questo scontro rimane, non certo in disparte, la Russia. Putin non è stato a guardare, basta osservare il fronte del Mediterraneo, dove possiamo contemporaneamente riscontrare il fallimento della politica estera europea e di quella americana. Il disimpegno a stelle e strisce ha innescato gravi conseguenze. In Siria per anni Obama ha sostenuto i ribelli anti-Assad, fornendo armi e supporto contro il dittatore sciita. Poi quelle fazioni sono state assorbite dall’Isis, autore degli attentati in Europa, come quello del Bataclan a Parigi. Il disimpegno americano non ha svegliato l’Europa dal suo torpore, ma ha conclamato il trionfo di Putin che ha sostenuto Assad ed ha conquistato in cambio un accesso fondamentale al Mediterraneo, con la presenza russa nel porto di Latakia. Di conseguenza, la Russia sfrutta il tentennamento dell’Unione europea che non ha una politica comune. Ogni tanto, Macron prende e parte con una sua politica – in Libano, nel Sahel e nel Mediterraneo – che è però autonoma, senza il ben che minimo coordinamento con gli alleati. Le mancanze di Nato e Ue offrono a Russia e Turchia spazio per allargarsi, come è successo in Libia. In un paese spaccato in due parti (se non di più), la Turchia di Erdogan si è scontrata con la coalizione formata anche dalla Russia, che supporta Haftar. La latitanza europea ha messo il paese in balia dei due ex imperi, ottomano e sovietico, che mettono piede nel Mediterraneo occidentale con porti, basi navali e affari commerciali. Il silenzio della politica estera comune europea è assordante, tra i 27 regna la divisione: l’Italia sembra stare con Serraj, la Francia con Haftar, quindi l’Italia con la Turchia, la Francia con la Russia.

L’Europa deve ripensare le proprie linee e strategie d’intervento all’esterno. Occorre elasticità per un’entità che in realtà ha una politica estera vasta, se sotto questa etichetta inseriamo le numerose attività extra-europee che non riguardano solo utilizzo di forza militare e diplomatica. Il vero successo esterno dell’Unione europea sta nella cooperazione, nei progetti di sviluppo, nei fondi per le attività. Il principale risultato dello spazio comune europeo si è riscontrato nell’operazione di allargamento e di democratizzazione dei suoi confini. L’Ue è un sogno a cui nei decenni hanno ambito molti stati vicini, che hanno avviato riforme, aperture e avvicinamenti a standard richiesti, pur di entrarne a farne parte. L’allargamento non era scontato, ma è stata un’operazione di politica estera di successo. Ora che si è esaurito uno spazio di allargamento “naturale”, occorrerebbe investire su partner da coinvolgere che orbitano e dialogano, ma le difficoltà identitarie e politiche (come nel caso della Turchia) rendono difficile l’interazione. Sono tanti i fronti dove l’Unione europea deve passare dalle parole ai fatti. In primis in Libia, non solo perché ci sono interessi geopolitici che mettono insieme Russia e Turchia, ma perché l’Africa è la naturale direzione verso cui le linee della politica estera comunitaria dovrebbero propendere nel prossimo decennio.