Lavoro in questa stanza da vent’anni. Ventidue, per la precisione. Ogni mercoledì e venerdì, dalle sedici alle diciotto, teniamo conferenze letterarie, ma non solo.

Attiriamo persone di tutti i tipi, noi dell’Università dell’età libera – anche se, tirando le somme – i nostri allievi sono gli stessi fedelissimi da sempre. Persone sole, abituate al doppio appuntamento settimanale. E pur sapendo bene che le nostre conferenze sono di una noia e di una mediocrità mortale, continuiamo a tenerle e ad ascoltarle, in un imperterrita ritualità.

Per noi cattolici praticanti sfegatati non è la sostanza, ma è il rito che conta. Non importa se le parole che escono dalla bocca del conferenziere siano a norma grammaticale o meno, non importa se i dati che traiamo dai nostri discorsi siano falsi oppure no – come è irrilevante, dopotutto, che Dio sia vero o finto. È la forma che conta, il rito, la scadenza puntuale e sempre identica, precisa, con variazioni sul tema.

Sono cattolico. Gestisco da vent’anni le conferenze letterarie dell’Università dell’età libera della città di Pietragrassa, un borgo tanto suggestivo quanto inutile per l’economia e l’andamento del mondo. La sala appartiene all’Apostolato della Regione, ma gli abitanti preferiscono chiamarla “Circolo Acli”, per via del bar annesso. 

Prima di averlo io in concessione, questo luogo era a beneficio esclusivo di una cooperativa teatrale, nota sul territorio come “Teatro della Fornace” –  divertente controsenso, visto il freddo che si patisce, talvolta, fra queste mura. 

Condividiamo lo spazio con loro, e in seconda posizione con medaglia d’argento dopo “Circolo ACLI”, proprio “La Fornace” è il nome più in voga per definire la nostra stanza. Noi, d’altro canto, la chiamiamo semplicemente “la sala”: “ci vediamo in sala”; “ho una conferenza in sala”…

(La precisazione serve solo a capire di che pasta diversa siamo noi, che amiamo la chiarezza, la neutralità, rispetto a loro – semplici, elementari, tutti slanci, fuoco fatuo e inutili corse).

Il teatro è un’attività per pervertiti. L’ho sempre saputo: io ho pudore. Loro no: fanno cose assurde. Assurdità che non ho mai voluto sperimentare, su di me.

Forse ho sbagliato? Ho una vita triste adesso. Lo sono sempre stato: ho sempre avuto paura di apparire ridicolo. Sono un signore rispettabile, non sono certo ridicolo. Però sono triste. Noioso. Preferirei essere leggero e ridicolo. Penso spesso al suicidio. Ma non ditelo in giro: qualcuno potrebbe sabotarmi.


Mi capitò un mercoledì pomeriggio di conoscere una ragazza del Teatro. Non l’avevo mai notata prima. In seguito, mi spiegò che s’era trasferita da poco. 

…come dimenticare quel primo e ultimo incontro?

Erano le quindici e trenta. Dopo un paio d’ore avrei tenuto una conferenza abbastanza lunga a proposito della legalizzazione della cannabis. Affannato e con il mal di testa, come sempre, dovevo piazzare sulle sedie i volantini dell’evento e, sul tavolo, la scaletta del mio discorso. Tema complicato…molti dei miei colleghi erano contro. Io invece, abbastanza a favore. Il rischio di offendere qualcuno? Molto alto. Meditabondo, stavo per entrare in sala, quando all’improvviso una voce, che non capivo se fosse maschile o femminile, mi inchiodò sulla soglia della porta; il mio corpo tutto intero si congelò: il viso si contrasse in una smorfia granitica; i muscoli tesi, il respiro sospeso a un soffio impercettibile – stavo in agguato. Nessun rumore doveva trapelare dal mio corpo. Mi sembrava che, se avessi fatto solo un po’ più di rumore,  quel mostro sconosciuto, al di là della porta, sarebbe venuto a prendermi, per uccidermi. 

Solo il mazzo di chiavi che tenevo in mano oscillava e tintinnava, come le catene di un ergastolano – e un tremolìo diffuso, da capo a piedi, mi scuoteva i nervi in un mare di sudore freddo.

Udii quella voce come se discendesse da un incubo, o da una dimensione non propriamente umana. Senza dubbio proveniva dalla sala: i vetri oscuranti della porta d’ingresso, ancora chiusa, non mi permettevano una visione chiara; tuttavia indovinavo la luce accesa, e una sagoma stesa a terra. 

Come descrivere quel suono lancinante, inaspettato, che mi attraversò senza preavviso in un pomeriggio in cui prevedevo di tutto, fuorché quella cosa

Per un nanosecondo le viscere mi si ribaltarono dentro – poi, deglutendo, tornai alla normalità. 

Mi proposi di analizzare il fatto in maniera razionale. 

La vibrazione doveva essere prodotta da un’unica voce. A giudicare dai rumori, la creatura era sola nella stanza. Un unico apparato fonatorio camminava e si rotolava nella mia sala, solitaria, lei, emettendo polifonie fra il gutturale e l’angelico. Sbirciai da dietro il vetro.

La sagoma stesa a terra che scorgevo era minuta, ma morbida: una ragazza. Dal suo petto, strisciando lungo il pavimento e diffondendosi oltre i muri, il soffitto, le pareti – una nota calda e bassa sembrava voler avvolgere tutto l’ambiente, abbracciarlo con grazia: sentivo la maniglia della porta vibrare per effetto della sua voce. In aggiunta al tono grave, una sorta di “V” (pareva l’alito del vento fra le foglie) si armonizzava al resto, come a volersi insinuare, materna, fra gli interstizi della porta. La scena, osservata nella penombra, mi provocò uno strano sdoppiamento: da una parte sentivo le corde della mia anima sciogliersi, levigarsi nel profondo – ma provavo anche un disturbante sentimento d’orrore. La figura a volte spezzava quell’armonia polifonica per perdersi in gorgheggi raschiati, di gola, produceva sussurri dal volume così alto da far gelare il sangue.

“Sono io. Siamo noi. Sei tu”. Ripeteva. E poi soltanto: “Sono io. Io sono. Io sono”. 

Che una ragazza potesse fare uscire da sé versi di quel genere, mi era inconcepibile. Soltanto nel film L’esorcista mi ero trovato di fronte a qualcosa di simile. 

D’improvviso il suono cessò. La figura, stesa supina, alzò il braccio sinistro, il braccio destro, poi fece ricadere entrambe le braccia a terra, mollemente. Ripeté lo stesso meccanismo prima con le gambe, poi con le braccia e con le gambe insieme. Spalmatasi di nuovo a terra, cominciò a rotolare, rapida, verso l’ingresso dove mi trovavo. Animalescamente feci un balzo all’indietro, non volevo essere visto. La ragazza, sempre rotolandosi, gridava “AAA” – ma non era un urlo di rabbia, o di terrore. Assomigliava a un’automobile al momento dell’accensione: “ahahahahah…”. Oscillava in altezza e in volume, e così pareva voler continuare all’infinito. A un certo punto si alzò di scatto, iniziò a correre in maniera disordinata per tutta la stanza, pronunciando a ripetizione (con una voce impostata, da attrice) “Non rida di questo amore, Lisavèta”. Ogni tanto cambiando colore alla frase: ora rideva a crepapelle, ora invece sembrava infastidita, arrabbiata, depressa, sconfitta, disgustata… Era uno spettacolo molto divertente, soprattutto era interessante la rapidità con la quale passava da uno stato all’altro, in modo assai credibile. “Questa è magia”, pensai: “Passare da un’emozione all’altra così, incarnare l’una e l’altra cosa in antitesi e insieme – cambiare – nel giro di un nonnulla…”. Mi ero sempre chiesto come facessero gli attori (certi attori) a fingere così bene. Me li immaginavo, durante le prove, con i copioni in mano, a provare e riprovare dialoghi, monologhi, scene, finché le battute non risultavano credibili… Non avrei mai pensato che la recitazione potesse comportare esercizi e follie del genere. Quella ragazza in tutta probabilità si stava esercitando. Ma per cosa, in vista di cosa, non avrei saputo dirlo. 

Me ne stavo così, assorto in considerazioni del tutto nuove, quando mi accorsi che la ragazza era uscita dal mio campo visivo. Nemmeno parlava più. Dove poteva essere? Aspettai con il cuore in gola per cinque minuti buoni.

Oramai erano le 15:40, sarei dovuto entrare, ma avevo paura di invadere il suo spazio, che era anche il mio. 

Fu come se mi avesse letto nel pensiero: udii prima la voce, poi la vidi. Ripeteva, convulsamente: “Mandala Mandala Mandala Mandala” agitandosi come un’ossessa. Danzava proprio davanti a me, lei non poteva vedermi – ma sembrava danzasse apposta per me. La testa, le braccia, le mani, i fianchi, le caviglie… tutto in lei sfrigolava, bruciava, si snodava: era una fiamma umana. I movimenti scomposti, tutt’altro che eleganti, trasmettevano un’energia folle e magnetica.

Le 15:45… fra un po’ sarebbero arrivati gli allievi per la conferenza, ma per la seconda volta la giovane donna indovinò la mia preoccupazione come per telepatia. Si stese a terra. Muta. Prona. Per una frazione di secondo, credetti che stesse mimando un impercettibile atto sessuale con il pavimento. Alla fine, con calma compassata, si alzò e si diresse verso la scrivania, dove si sedette. Prese un quaderno da un cassetto e si mise a scrivere.

Le 15:49… la osservai ancora per qualche secondo. Lei restava lì, a testa bassa. Ancora non ero riuscito a capire che viso avesse; il corpo era bello, minuto, affusolato, magro – nel maglioncino nero che la sigillava – un corpo, tuttavia, di una sconcertante morbidezza. Fra poco sarei entrato, ma volevo comunque lasciar passare un po’ di tempo, lasciarla seduta ancora un po’, almeno da non farle sospettare che l’avessi guardata di nascosto.

Le 15:50. Entrai. Lei sollevò la testa di scatto, come una gatta sorpresa da un rumore imprevisto. La penna rimase saldamente fra l’indice e il pollice della mano destra. Io le sorridevo muto. Fu lei la prima a dire: “Ah. Salve”. Percepivo nella sua voce un misto di sorpresa e di delusione. Avanzai verso di lei: “Fra dieci minuti inizieremo la conferenza, durerà un paio d’ore, ma non si preoccupi, può stare”.

“No. Stavo per andarmene, non mi ero accorta dell’ora. Lo so che occupate la sala, il mercoledì e il venerdì”.

La osservai più da vicino, non privo di una certa contentezza per il privilegio di poterla finalmente vedere, a tu per tu. Il viso incarnava perfettamente l’anima della sua voce: aveva un volto piccolo, delicato, con delle belle labbra carnose pitturate di rosso. La sua espressione era un misto di gentilezza, disponibilità, malinconia; gli occhi brillavano di una luce oscura, dentro i quali si poteva leggere una triste determinazione. Sembrava stanca, doveva avere trent’anni. Come per la voce, anche l’aspetto rivelava, dietro la patina sorridente e cordiale, una sorda freddezza, una secchezza di modi, un’efficienza nordica.

Volevo trattenerla: “Sei del Teatro della Fornace?”. “Sì, ho iniziato a tenere un corso quest’anno, su richiesta di Vanessa, la fondatrice. Mi sono trasferita a Pietragrassa il mese scorso. Prima vivevo a Berlino”. “Come hai conosciuto Vanessa?” “Non so”. “Quante ore fate a settimana?” “Con gli allievi dipende, quattro, sei ore a settimana. Però vengo spesso qui, da sola, per esercitarmi.” “State già lavorando a uno spettacolo?” “Ancora è troppo presto, il corso è appena iniziato. Io ora ho un lavoro con una compagnia di Secchio, ma non proviamo mai qui. Qui io vengo per… sperimento. Anzi, mi libero. Se ho bisogno di fare una corsa, vengo qui. Se devo sgranchirmi il collo, vengo qui. Se voglio liberarmi dal mal di pancia o digerire, vengo qui. Fa stare in forma. È come una palestra – là però mi stufo, qui, no.”

Con indifferenza, si voltò di spalle, richiuse e sollevò il quaderno dalla scrivania, arrotolandolo a mò di cannocchiale, con le mani incrociate sul grembo. Dopo un respiro profondo, si rivolse di nuovo a me: “Se per caso dovesse vedermi fare cose strane qua dentro (strane nei limiti della decenza, si intende) non si impressioni: è tutta ricerca. Un tentativo di combattere il rimpicciolimento per inseguire una dimensione più grande. Energie che devono bruciare… e che un giorno saranno investite in qualcosa di canalizzato, di finalizzato, forse, ma non so. È il paradosso del teatro: sappiamo che dobbiamo liberarci da qualcosa, condividere delle storie, delle sensazioni… ma il come è spesso un’incognita. L’unico punto fermo, sicuro, è che bisogna cercare la bellezza mentre si arde e ci si consuma”.

Qui fece una pausa, dando un’occhiata all’orologio che portava sul polso minuto. Deglutì, poi continuò, distrattamente: “Oh, scusi se l’ho trattenuta con queste stronzate, era solo per mettere in luce la pasta diversa con cui siamo fatti, noi e voi. La lascio alla sua conferenza adesso. È stato un piacere, signor…” “Morellato. Angelo Morellato” e le tesi la mano. Lei se ne fuggì con un arrivederci svagato, infilandosi il quaderno sottobraccio. Sbatté la porta senza grazia.

Restai in piedi imbambolato, instupidito. Perché quel discorso? Si era accorta che io, vecchio, provavo attrazione verso di lei, più giovane di quarant’anni? E aveva veramente detto “stronzate” con quella composta, innocente nonchalance? 

Mi aveva visto?

Mi aveva visto, che guardavo. E aveva continuato a fare tutto quello che stava facendo, senza smettere, senza vergogna?

Qualcosa mi suggerì che c’era della grandiosità in quel comportamento. Io però provai vergogna, non per lei ma per me stesso; un fuoco sottile mi s’era accampato sul viso, non mi lasciava: mi promisi di non venire mai più alle conferenze con mezz’ora d’anticipo. Le persone stavano arrivando, prendevano posto, mi interpellavano. La situazione appariva irreale: mi muovevo, annuivo, boccheggiavo, sgranavo gli occhi a destra e sinistra come un pesce in missione spaziale. Quando tutti furono seduti a braccia conserte, per ascoltare felici storie già trite e ritrite, presi in mano la scaletta, il microfono. Respirai. Parlai.

Scambiammo mediocri considerazioni, come sempre, consapevoli del tedio e ben propensi a viverlo. Nessuno si schierò a favore o contro la cannabis, anche se era evidente che avremmo voluto tutti farci un’enorme fumata collettiva e poi morire lì. Ma non si poteva. Quindi annuivamo, sconfitti, fingendo un interesse che deformava le spalle e solcava altrettante rughe sulla fronte.

Quel pietoso, garbato passar del tempo era il comune accordo del nostro vivere insieme.

Lo sapeva, quella ragazza? Il nostro era un focolare che tirava poco, alzava una fiamma esigua e affumicava molto. Forse anche lei, di nascosto, da dietro il vetro, s’era fermata a spiarci.