L’11 settembre 2001 è entrato bruscamente anche nel panorama letterario. La quantità di libri di tipo saggistico o romanzesco sull’argomento è vasta e anche di grande spessore. Quando si cerca di comprendere o rivivere quel fatto storico, però, ci si affida soprattutto a testi scritti da autrici o autori statunitensi, spesso bianchi e che si identificano e, soprattutto, vengono identificati con le vittime. Cosa accade quando a raccontare l’11/09 è la prospettiva marginale di chi è ritenuto, per ragioni geografiche o religiose, più vicino agli attentatori?

È il caso de Il fondamentalista riluttante (2007) di Mohsin Hamid, autore pakistano nato a Lahore e vissuto a lungo negli USA, in particolare a New York. Il personaggio attorno a cui costruisce il suo romanzo è Changez, un giovane di origini pakistane che riesce a frequentare Princeton grazie a una borsa di studio e poi approda a una società di consulenza newyorkese diventando un apprezzato analista. Nel momento in cui sta vivendo il sogno americano ed è in una fase estremamente positiva della sua vita professionale e sentimentale, il meccanismo si inceppa e la Storia irrompe. L’11 settembre lo coglie alla sprovvista in un Paese che non sa se può considerare come proprio e scuote le sue certezze.

Copertina del Fondamentalista riluttante

L’incipit del volume ne mostra subito il tono brillante e volutamente leggero quando c’è bisogno di stemperare la tensione e pungente quando vuole far emergere la tragicità dei fatti. Il fondamentalista riluttante è costruito come un lungo (134 pagine) monologo di Changez nei confronti di un uomo statunitense che, in un primo momento, può sembrare semplicemente un turista. Siamo a Lahore, la città d’origine del protagonista, e i due sono a cena in un locale tradizionale. L’incontro tra i personaggi getta già le basi per il tema centrale del romanzo.

Chiedo scusa, signore, posso esserle d’aiuto? Ah, vedo che l’ho allarmata. Non si faccia spaventare dalla mia barba: io amo l’America. Mi sembrava che lei stesse cercando qualcosa; anzi, più che cercando, lei pareva in missione, e dato che io sono nativo di questa città e parlo la sua lingua, ho pensato di offrirle i miei servigi.

Incipit del Fondamentalista riluttante

Hamid, infatti, concentra la narrazione sulla percezione degli USA e in particolare New York da una prospettiva pakistana. Prima dell’11 settembre, considerando la prestigiosa università frequentata da Changez, era più semplice entrare a far parte del tessuto sociale statunitense. Soprattutto nel momento in cui è passato da Princeton a New York. Si legge infatti che «In quattro anni e mezzo non ero mai stato americano; mi ritrovai ad essere immediatamente newyorkese».

Changez diventa anche consapevole della sua condizione di “straniero privilegiato”, accolto con un favore maggiore rispetto a chi proviene da altre zone del mondo. «Mi sono domandato perché i miei modi colpivano tanto i colleghi più anziani. Forse era per come parlavo: dopotutto anche gli Stati Uniti sono, come il Pakistan, una ex colonia inglese, e non è quindi così ingiustificato se un accento anglicizzato nel vostro paese continua a essere associato alla ricchezza e al potere, come nel mio».

Mohsin Hamid, autore del Fondamentalista riluttante

Naturalmente tutto ciò cambia in modo radicale con l’attentato dell’11 settembre, ma la sua reazione iniziale non è quella che la lettrice e il lettore del romanzo si aspettano: «Accesi la televisione e vidi quello che sulle prime mi parve un film. Ma continuai a guardare e mi resi conto che non era una finzione ma una notizia. […] E allora sorrisi. Sì, per quanto possa apparire deprecabile, la mia prima reazione fu di notevole compiacimento». Perché un giovane che sta traendo i massimi benefici possibili dagli USA (o per lo meno quelli ritenuti tali) prova un certo piacere davanti a quella tragedia? «I miei pensieri non erano per le vittime dell’attacco […] no, ero colpito dal simbolismo della cosa, dal fatto che qualcuno fosse riuscito a mettere in ginocchio gli Stati Uniti in modo tanto smaccato».

Inizia un percorso che porta Changez a riflettere sul suo senso di appartenenza a una nazione che inizia a percepirlo come estraneo e potenzialmente pericoloso. Non perché lo sia davvero – il suo compiacimento termina nel momento in cui teme che la donna con cui ha una relazione possa essere tra le vittime – ma perché il suo aspetto lo rende simile agli attentatori, troppo simile per una prospettiva americana.

Viene fermato all’aeroporto, controllato con maggior scrupolo rispetto agli altri passeggeri e guardato di sottecchi quando si intravede la barba sul suo volto. Fin da quando ha appreso la notizia dell’attentato, Changez sapeva che sarebbe giunta una reazione statunitense verso al Qaida. Infatti «la possente armata che mi aspettavo dal vostro paese venne radunata e spedita al fronte, ma in direzione di casa mia, della mia famiglia in Pakistan» e il protagonista non può che provare dolore e spaesamento.

Trovatosi improvvisamente straniero, Changez non comprende come sostenere un Paese che attua la sua rappresaglia in una zona del mondo tanto vicina alle sue origini, ponendo anche il Pakistan in una situazione di tensione. Inoltre guarda con perplessità al dolore statunitense:

Quello che i vostri compatrioti rimpiangevano non mi era chiaro: un periodo di predominio indiscusso? di sicurezza? di certezza morale? Non so, ma era evidente che si stavano dando da fare per indossare i costumi di un’altra epoca.

Diviso tra due culture, le vede avvicinarsi in modo ostile l’una verso l’altra e questo lo rende incerto: «Mi erano caduti i paraocchi ed ero abbagliato e incapace di muovermi per l’improvviso allargarsi del campo visivo». Un percorso di consapevolezza personale che porta Changez a riappropriarsi delle sue origini pakistane in modo orgoglioso e militante e spinge chi legge a interrogarsi su quanto l’11 settembre abbia pesato sulla componente identitaria di quelle persone percepite come straniere negli USA (e non solo).