Sabato, 17 agosto 1996. Allo scoccare delle 15 di un caldo pomeriggio estivo, l’arbitro David Elleray fischiò l’inizio di un nuovo campionato per il Wimbledon F.C. di Joe Kinnear e per i campioni in carica del Manchester United di Alex Ferguson, alla sua decima stagione sulla panchina dei Red Devils.
Nella cornice del Selhurst Park, storico stadio del Crystal Palace negli anni “prestato” ad altre squadre, 25.786 spettatori si radunarono per assistere a un match dall’esito scontato, con il Wimbledon reduce da un anonimo quattordicesimo posto e lo United che metteva in campo dall’inizio, oltre a diversi promettenti giovani del vivaio, il neo acquisto Jordi Cruyff, figlio del genio Johan.
Una partita da promessa del calcio
Ma chi alla fine dell’incontro avrà rubato la scena a tutti non sarà il centrocampista appena arrivato dal Barcellona né il numero 7 del Manchester, quell’Eric Cantona re senza rivali da quelle parti (che sbloccò l’incontro dopo 25 minuti), ma un 21enne dai capelli biondi e la faccia pulita che, alla sua seconda stagione con la casacca rossa in Premier League, si faceva già carico del pesante numero 10 di una delle più forti squadre del mondo sulle spalle: David Beckham.
Nella stagione ‘95-’96, quella del suo esordio (con gol) in Premier, il futuro golden boy del calcio inglese aveva contribuito, con 8 gol e numerosi assist in ben 40 presenze tra campionato e coppe, alle vittorie in campionato e in FA Cup della compagine di Ferguson, guadagnandosi la casacca numero 10 e il posto da titolare anche per la stagione successiva.
E nonostante per gli addetti ai lavori fosse un nome ben conosciuto, fu proprio quel pomeriggio di agosto a cambiare per sempre la sua vita e a spalancargli le porte dell’Olimpo del calcio.
Le scarpe sbagliate di Beckham
Eppure quel giorno non sembrava presagire nulla di buono, a partire dal problema con gli scarpini nel quale era incappato il giovane talento londinese. Dopo aver saputo che il suo sponsor, l’Adidas, era in procinto di lanciare la terza generazione del suo scarpino da calcio più iconico, le Predator, David chiese e ottenne di poterle indossare per il primo match del nuovo campionato.
Dev’essere stata grande la sorpresa nell’aprire la confezione e trovare le sue nuove Predator Touch con il nome stampato su uno dei tratti distintivi del nuovo modello, ovvero la linguetta rossa. Peccato che la stampa portasse un altro nome: Charlie.
Già, perché le scarpe che arrivarono a David Beckham erano in realtà già state preparate per Charlie Miller, ventenne centrocampista scozzese dalla carriera piuttosto anonima, all’epoca tra le fila dei Rangers di Glasgow e fresco vincitore del premio come miglior giovane della Scottish Premier League dell’anno prima.
Senza farsi troppi problemi, David si infilò le scarpe e scese in campo.
Una partita in cassaforte
Dopo un’ora di gioco lo United aveva già messo il risultato in cassaforte, con un netto 0-2 frutto dei goal di King Eric e del terzino irlandese Denis Irwin, uno che ha speso dodici anni nella retroguardia di Mr. Ferguson.
Dopo una netta occasione del Wimbledon per accorciare le distanze, malamente sprecata da Leonhardsen, nei minuti finali i Red Devils ebbero diverse chance per chiudere la partita e scongiurare il ritorno degli avversari, che avrebbe reso difficile il finale di gara.
Ma sia Roy Keane, con un bolide che fece tremare la traversa, che il neo acquisto Cruyff non riuscirono a violare ancora la porta difesa dallo scozzese Neil Sullivan.
In particolare Cruyff, sul finale del match, tentò di scavalcare Sullivan con un pallonetto da fuori area che si spense sul fondo. In quel momento una lampadina si accese nella testa di David Backham.
Velocità di pensiero, velocità di esecuzione
Il giovane Beckham, voglioso di spiccare in una rosa di giocatori dai nomi altisonanti, tentò di beffare il portiere avversario come poco prima aveva fatto il suo compagno di squadra Jordi, con lo stesso risultato.
Ferguson, nonostante già all’epoca stravedesse per Beckham, si infastidì molto per quel tentativo e prese in considerazione l’idea di sostituirlo. Ma non fece in tempo.
Passarono pochi minuti e, allo scoccare del novantesimo, il Wimbledon in fase di attacco perse palla, recuperata da Brian McClair che la scaricò sulla fascia destra per il suo numero dieci, ancora nella propria metà campo.
David alzò la testa quel tanto che bastava per notare di nuovo Sullivan fuori dai pali e, senza pensarci un istante, caricò il destro e calciò il pallone da 55 metri. Il modo migliore per raccontare quei pochi attimi è, forse, utilizzando le parole proprio di chi quel tiro lo ha subito, Neil Sullivan:
Un goal fuori dal comune
Con quel goal il nome di David Beckham cominciò a fare il giro del mondo. E, come fossero parte di un’unica entità, insieme al nome ovunque iniziò a diventare familiare il suo modo di calciare: piede d’appoggio molto vicino al pallone, braccio sinistro che si allarga con un ampio respiro e piede destro che, molto angolato e quasi poggiandosi a terra con il lato interno, colpisce la palla in modo netto, quasi a lasciar cadere un’ascia su di essa.
E pensare che neanche dieci minuti prima David, come detto, ci aveva già provato, con l’unico risultato di far innervosire Alex Ferguson. Al punto che il mister, rivolgendosi al suo vice Brian Kidd, disse: “Se lo fa ancora lo sbatto fuori”.
“In quel periodo – disse poi Ferguson – David si stava un po’ adagiando sugli allori e bisognava tenerlo con i piedi per terra”. Ma dopo il goal fu Kidd a voltarsi verso l’allenatore e, con una smorfia, gli disse “Beh, mi sa che dobbiamo toglierlo”.
La nascita di un campione
Il primo a realizzare l’importanza della prodezza di Beckham fu lo storico commentatore della BBC, John Motson, che con incredibile lucidità definì così la marcatura del 10 del Manchester:
Per alcuni, come dichiarato da Gary Neville, compagno di squadra di David, quel colpo balistico non era nulla di nuovo dato che potevano vederlo ogni giorno in allenamento, visto che il futuro Spice Boy restava spesso in campo a praticare lanci e tiri da metà campo.
Invece il commentatore di Sky, Martin Tyler, disse di aver subito capito che la storia si stava scrivendo proprio davanti ai suoi occhi:
Dopo il gol al Wimbledon
Quel giorno e quel goal cambiarono la vita David Beckham, che due settimane dopo fece anche il suo esordio in Nazionale, indossando per la prima volta il numero 7 dei Tre Leoni nell’incontro di qualificazione ai Mondiali 1998 contro la Moldavia.
Beckham chiuse la stagione con 49 presenze e 12 goal, contribuendo alla vittoria di un altro campionato e della Charity Shield, non riuscendo comunque a evitare l’eliminazione in semifinale di Champions per mano del Borussia Dortmund (che avrebbe poi vinto la competizione sconfiggendo nella finale di Monaco la Juventus di Marcello Lippi).
Tornando anni dopo sul suo goal contro il Wimbledon, Beckham disse:
David ha sempre definito quel goal come il suo preferito, soprattutto per l’importanza nella sua carriera, ma ha anche ogni volta specificato che ciò che lo rese più felice fu il fatto che Cantona, il re dell’Old Trafford, gli andò vicino a fine incontro per dirgli “Bel goal”.
Alla fine di quella stagione il trentenne capitano del Manchester United, primo straniero a vincere l’FA Cup con al braccio la fascia di una squadra inglese, uno dei più grandi numeri 7 del calcio mondiale e, di sicuro, della storia dei Red Devils, decise di ritirarsi.
Così all’inizio del nuovo campionato David prese quel numero 7, che divenne, per molti anni a venire, un tutt’uno con le sette lettere che si trovavano poco sopra di esso. Il resto è storia.