Correva l’anno 1997, frequentavo la seconda elementare e non conoscevo nessuno dei cartoni giapponesi di cui parlavano i miei compagni di classe. Il motivo? In famiglia, per scelta, non si guardavano i canali Mediaset. E quindi sono cresciuta senza Sailor Moon, senza Holly e Benji, senza Kiss Me Licia. Ai miei genitori, come a molti altri, non andava che fossi esposta a contenuti percepiti come diseducativi, troppo violenti o troppo melò. Erano visivamente lontani dal loro immaginario, così come i fumetti che si leggono da destra a sinistra e i film asiatici che non avessero la regia di Kurosawa. Niente era peggio dei “cartoni giapponesi”. Com’è che invece Heidi e Anna dai capelli rossi, che pure erano produzioni nipponiche, sfuggivano a quella disprezzata categoria? Solo perché andavano in onda sulla Rai, o perché erano adattamenti di romanzi occidentali?

I miei genitori, senza saperlo, in alcuni casi avevano ragione da vendere. Nel calderone dei cartoni, su Italia1 e Canale5, andavano a finire serie animate perfettamente innocue e altre che invece non erano affatto destinate all’infanzia. Ma che, per l’equazione tutta italiana animato=infantile, venivano vendute come tali. Salvo poi censurare le scene per adulti con tagli fatti con l’accetta, che stravolgevano il senso della storia, cosa che non ha impedito alla mia generazione di appassionarsene. Me compresa, quando crescendo sono entrata in un entusiastico scambio di manga shojo (i fumetti “rosa”, zeppi di romanticismo casto e puro) con le amiche. E poi, tra le superiori e l’università, nel vasto mondo degli anime. MTV ci ha portato dei cult come Inuyasha, Death Note e Full Metal Alchemist. I canali tematici su Sky hanno recuperato vecchie glorie anni ’80 come Ken il guerriero.

Una tavola del celebre manga Demon Slayer – Kimetsu no yaiba – Credits: Weekly Shōnen Jump – Star Comics

Sono passati anni e, con il boom dello streaming, le produzioni che arrivano dall’Asia sono più accessibili e diffuse che mai. Le piattaforme streaming offrono serie e film, sia animati che live action, provenienti da Cina, Giappone e Corea del Sud, e che macinano cifre da capogiro in fatto di visualizzazioni. Nessuno si azzarderebbe a mettere in dubbio che film come Parasite e La città incantata siano dei capolavori, anche se non fossero stati premiati agli Oscar. I manga e i manwa (rispettivamente, fumetti giapponesi e coreani) non si trovano più solo in negozi specializzati o in poche edicole che li distribuiscono con mesi di ritardo rispetto all’uscita, ma in qualsiasi libreria. Sono letti e apprezzati da lettori di ogni tipo e in particolare dai giovani.

Ed è qui che nasce la polemica. I miei genitori hanno aggiornato la loro visione delle culture asiatiche, cosa che invece non ha fatto Walter Veltroni, da poco autore dell’articolo “Perché i manga hanno conquistato i nostri ragazzi”. In cui insinua nebulose preoccupazioni sul fatto che i ragazzi della generazione Z leggano più manga che “libri veri”, parla di “violenza parossistica” contenuta – secondo lui – in tutti i fumetti giapponesi senza eccezioni, però conclude con un bonario invito a non preoccuparsi del “vento d’Oriente” (e pure su questa espressione ci sarebbe molto da ridire). Così come il palinsesto di Italia1 accostava Doraemon e Lady Oscar, così Veltroni associa allegramente musica pop coreana, fumetti di vari paesi, serie animate e il successo di Squid Game (di cui abbiamo parlato qui), per dipingere un quadro che era già obsoleto trent’anni fa.

Da sinistra: Lee Yoo-mi e Jung Ho-yeon in una scena di Squid Game – Credits: Netflix

Parlare di manga e intendere un preciso genere di fumetti, per lo più storie fantasy ricche d’azione, sesso e violenza, è totalmente sbagliato. Chi lo fa ne ha una visione provinciale e antiquata, oppure è allarmato dal recente incremento delle vendite di fumetti tra i giovanissimi, in cui vede scenari di pericoli per “i nostri ragazzi, traviati dalla narrativa straniera”. Manga significa semplicemente “fumetto”, così come anime significa solo “cartone animato”. Possono essere di qualità variabile, di contenuti disparati, espressione di sensibilità diversissime tra loro, e rivolgersi alle più varie fasce demografiche. Proprio come altra forma espressiva. Biasimarli additando un preciso genere di storie vuol dire confondere il medium con il contenuto. Sarebbe come dire che tutti i romanzi, o tutti i film, appartengono allo stesso genere.

Squid Game è violento? Certo. Ma per ogni Squid Game ci sono dozzine di commedie romantiche, saghe storiche, delicate storie per famiglie. Non è mai stata colpa di Dragon Ball se i ragazzini si azzuffano, così come oggi non è colpa di L’attacco dei Giganti. Ma se proprio si vuole evitare, l’alternativa c’è: sfido chiunque a trovare qualcosa di scabroso nel genere slice-of-life, che rende magica la vita quotidiana come farebbe un romanzo di Banana Yoshimoto. E basta comportarsi come se questi contenuti provenissero da una civiltà aliena con cui non abbiamo nulla in comune. Sono frutto di decenni di contaminazione culturale. Spesso prendono a piene mani dalla “nostra” letteratura, dando vita a commistioni estremamente interessanti e appassionanti, come molti film dell’acclamato Studio Ghibli.

Manga e anime saranno illustrati, ma le loro storie sono da consumare in modo consapevole. Senza relegarle acriticamente ai canali di serie B o alla letteratura per ragazzi. Anzi, dei gusti dei ragazzi c’è da fidarsi, perché sanno quanto fa bene esporsi a storie che vengono da lontano. È utile, ed è bello, conoscere punti di vista alternativi al nostro. O a quello, rassicurante ma elitario, certificato e privo di rischi, della cultura approvata dal Veltroni di turno.