A cura di Francesco Chirico

Evoluzione

Oggi le palestre delle grandi città hanno prese colorate, pareti di 30 metri e un’intera area di allenamento a secco, con poco distante il bar per gli aperitivi e le birre post-allenamento. Non è sempre stato così, in pochi decenni l’arrampicata si è modificata in maniera sostanziale. Dove 50 anni fa si passava solo piantando un chiodo dopo l’altro, oggi si passa in libera. Che non è da confondersi con il free solo!

Kevin Jorgeson in libera sulla quindicesima lunghezza di The Dawn Wall ©Corey Rich

Prima delle moderne scarpette da arrampicata, tutto si saliva con i buoni vecchi scarponi di cuoio, era l’epoca in cui il sesto grado era ritenuto il massimo grado possibile, almeno senza sfruttare strumenti artificiali.. Quando si scala in questo modo si scala in libera, cioè con le sole forze del proprio fisico, ma sempre con la sicura del compagno di cordata, che nel caso di una caduta del primo, blocca la corda. Sul modo di bloccare la corda si potrebbe scrivere un articolo a parte, all’inizio si faceva a spalla, oggi ci sono decine di meccanismi diversi, tra freni e autobloccanti.
La corda in questo modo è usata solo per sicurezza, ma quando non basta, si ricorre all’uso della corda stessa per salire. Qui si sconfina nell’artificiale, il tipo di arrampicata in cui ci si aggancia con tutto quello che si riesce alla roccia, e si sale con quello. Anche qui si è assistito a una grande evoluzione, a partire dai cunei di legno martellati a forza nelle fessure (alcuni visibili ancora oggi), passando dai normali chiodi di tutti i tipi, fino alla strumentazione di oggi, che fa invidia alle sale di tortura medievali. In certi casi le pareti sono così prive di fessure e asperità da dover usare ancoraggi che tengono a malapena il solo peso del climber. Se dovesse esserci un minimo di accelerazione per un cedimento del primo ancoraggio, si rischia di “sbottonare” tutti i precedenti. È il caso dei copperhead per esempio. Ed è per questo motivo che nella gradazione artificiale è considerato anche il grado di pericolo di un’eventuale caduta.

Un mazzo di copperhead, ancora intatti. ©AlpShop

Con la migliore tecnologia e il miglioramento delle tecniche, non bastava più arrivare in cima. Ora bisogna arrivarci in modo pulito, e dalla particolare via sulla particolare parete. Negli anni ‘70 è Kurt Albert che inizia a dipingere un punto rosso alla base della via, nel caso in cui fosse riuscito a salirla in libera. Nasce da qui lo stile rotpunkt, dal tedesco “punto rosso”.
Da qui non ci si è più mossi, e una via viene considerata liberata solo se fatta con questo stile, tutto il resto sono tentativi. Non è quindi escluso provare e riprovare una via, allo scopo di riuscire a salirla in stile rotpunkt.

Pamela Shanti Pack mentre inserisce un friend e proteggere la sua salita. ©pamelashantipack.com

All’interno dell’arrampicata c’è poi una divisione fondamentale, tra lo stile sportivo, e lo stile tradizionale. In arrampicata sportiva si usano gli spit, o chiodi ad espansione, per proteggere la salita. La corda passa quindi in rinvii attaccati a chiodi che tengono fino a 22 kN, quindi 22000 kg nel caso statico. I rischi oggettivi sono ridotti al minimo. Sulle vie trad invece, le protezioni bisogna mettersele da soli, usando diversi tipi di strumenti. Anni fa i chiodi da roccia piantati col martello erano i protagonisti, oggi nut e friend sono molto più popolari, essendo facilmente messi e tolti nella roccia con una mano sola.
Quando si scala ci si può fermare ai primi 30 metri, oppure recuperare il secondo di cordata e continuare a salire, e poi ancora, e ancora.. Sono le vie multi-pitch, con cui si possono scalare pareti anche di 1000 m.

Favresse e Villanueva si rilassano dopo una giornata a scalare su una via multi-pitch, in attesa della seguente.. ©Eco di Bergamo

Ovviamente tutto si svolge in maniera più semplice senza corda, ma in questo caso i rischi sono sostenibili solo da poche persone al mondo. Il film Free Solo ne racconta dettagli e retroscena in occasione della salita in questo stile della via Freerider, ad opera di Alex Honnold.

Alex Honnold in free solo sulla via Freerider. ©Jimmy Chin – National Geographic

Alpi e Himalaya

Nell’ambito alpinistico non ci sono queste grandi distinzioni, a parte qualche eccezione. Si sale in cima, nel modo più comodo possibile. Sono ammesse corde fisse, scale per superare crepacci e altre comodità. C’è stata la grande polemica attorno alla Via del Compressore al Cerro Torre, salita facendo uso dei chiodi a espansione e, appunto, di un compressore. Probabilmente all’epoca l’unico modo per riuscire ad arrivare in cima, ma da molti ritenuto troppo artificiale, insomma così non vale. 

Il compressore usato da Cesare Maestri sul Cerro Torre. La via è stata schiodata di recente, scatenando molte discussioni. ©Jim Bridwell

La divisione principale, deriva da due delle grandi catene montuose: lo stile alpino da una parte, lo stile himalayano dall’altra. In base alle proprie montagne di casa, gli alpinisti hanno adottato una tecnica di salita veloce, con al massimo una notte in quota prima di attaccare la vetta, nella maggior parte delle salite. Questo perché le Alpi non superano i 5000 metri, e anche se si parte a piedi dal fondo valle, si riesce ad arrivare in cima in uno o due giorni. 
In Himalaya le dimensioni sono completamente diverse, e già solo per raggiungere il campo base ci vuole qualche giorno di trekking. Da lì poi si inizia a salire ai campi alti, montarli e scendere, per acclimatarsi man mano alla quota. Il tutto reso comodo dall’installazione di centinaia di metri di corde fisse. Ciò comporta grandi quantità di materiale e di scorte di cibo, e quindi la necessità di farsi aiutare dai portatori locali, con i loro yak carichi di tonnellate di materiale. Negli ultimi anni è caduto questo dogma dello stile himalayano, e si sono viste le prime salite in stile alpino anche in Himalaya, con i soli membri del team intenzionato ad andare in cima che si portano dietro la tenda e il proprio materiale. Niente corde fisse, si sale e basta. Quando poi il team si riduce a una persona sola, si parla di salite in solitaria.

L’ultima variabile è la stagione. Negli anni 80 e 90, quando scalare gli 8000 non era più una novità, inizia l’era del grande alpinismo invernale polacco, “ice warriors” venivano soprannominati. 

Denis Urubko sulla Cesen Route al K2, inverno 2018. ©Denis Urubko

Attaccare in inverno una montagna così grande, sconosciuta, con appena una piccola tenda a disposizione, è una cosa che solo un polacco può fare.

Krzysztof Wielicki – Piolet d’Or alla carriera 2019

Tutto questo può essere fatto con o senza ossigeno, e si va dalle salite in solitaria senza ossigeno, alle spedizioni commerciali sull’Everest, nelle quali con il giusto prezzo viene attrezzata la via e portato tutto il materiale necessario alla salita.

A sinistra Reinhold Messner in solitaria sull’Everest (©www.altoadige.it), a destra le code delle spedizioni commerciali sulla stessa montagna (©Scott Fisher / Gallery Hip)

Ogni stile ha un suo perchè, e una sua etica. Ci sono stati episodi di critiche tra diverse scuole di pensiero, anche durante anni, ma in generale in montagna, ognuno usa lo stile che più gli si addice.