«Quando c’era lui, i treni arrivavano in orario». È il cavallo di battaglia di chi vuole sottolineare, magari con un senso di nostalgia, l’efficienza dello stato fascista. Lo storico inglese Richard Carr ci racconta che Charlie Chaplin, a seguito di un viaggio nel nostro paese del 1931, si disse «impressionato dall’atmosfera italiana», dove «la disciplina e l’ordine erano onnipresenti. La speranza e il desiderio sembravano nell’aria». Lo storico racconta di come persino il regista de Il Dittatore cadde nell’adagio che «i treni arrivavano in orario». Ma era davvero così?

Difficile controbattere con metodo un’affermazione così assoluta: a rigor di logica, basterebbe un solo treno in ritardo per smentire questa granitica certezza. Sappiamo tuttavia che non basta, questo motto ci dice qualcosa di più. Ci dà l’immagine di uno Stato preciso e puntuale, dove regna l’efficienza e tutto va come deve andare, grazie a un grande Lui garante di quest’ordine meccanico e metafisico insieme.

Fonte Istituto Luce

Il mito ha cominciato a crearsi nel 1924, quando Costanzo Ciano, appena nominato Ministro delle Comunicazioni, iniziò a diffondere lo slogan dei «treni in orario», obiettivo da ottenere con una rigorosa «disciplina e regolarità d’esercizio». Oltre a inserirsi nel disegno più generale di propaganda sull’efficienza del nuovo regime, il messaggio di Ciano mirava implicitamente a mettere fine agli scioperi che negli anni passati avevano animato la classe dei ferrovieri e che venivano percepiti – e raccontati dalla stampa – come principale causa del disservizio. L’esigenza di veicolare una nuova immagine del sistema di trasporto ferroviario italiano si inseriva, dunque, in un disegno più generale di propaganda sull’efficienza del nuovo regime.

Tra il 1919 e il 1920, nel corso del cosiddetto Biennio rosso, l’Italia fu attraversata, complice la grave crisi economica post bellica, da numerose agitazioni, rivendicazioni sul lavoro, lotte operaie e contadine che degenerarono in scontri violenti. Tra tutte, l’agitazione ferroviaria del gennaio 1920 si impresse nel senso comune degli italiani come il momento più grave; esempio di insubordinazione sociale e disordine pubblico perché andava a influire direttamente sulla vita quotidiana, ed era condotta da un sindacato autonomo, ideologicamente agguerrito e ben strutturato. Nel 1919 Mussolini aveva fondato a Milano il suo movimento politico – i Fasci italiani di combattimento che nel 1921 si trasformeranno nel Partito Nazionale Fascista – e cavalcava la paura di un’ondata rivoluzionaria demonizzando gli scioperi ferroviari dalle colonne del suo giornale, Il Popolo d’Italia.

Durante gli anni tra il 1922 e il 1924, all’ordine del giorno del primo governo Mussolini era previsto un numero massiccio di licenziamenti tra il personale ferroviario. Per questi esuberi si ebbe cura di scegliere in gran parte attivisti e simpatizzanti dei partiti socialista e comunista. Nel dicembre 1922 fu sciolto il consiglio di amministrazione delle Ferrovie dello Stato per nominare commissario straordinario Edoardo Torre che realizzò una grande epurazione degli elementi sovversivi. Nei primi due anni del Ventennio vennero esonerati oltre cinquantamila ferrovieri con la motivazione fittizia dello “scarso rendimento”: dei 226.907 in servizio al 30 giugno 1922, ne rimasero 174.140 diciotto mesi dopo. I licenziamenti tra il personale ferroviario non sono confrontabili con nessun altro intervento di riforma del settore pubblico precedente. Poiché i ferrovieri erano i lavoratori più sindacalizzati e politicizzati nel panorama italiano, nel maggio 1923 venne istituita la Milizia ferroviaria, con funzioni di controllo non solo su treni e stazioni e ma anche sui dipendenti. L’obiettivo era quello di azzerare gli scioperi ed esercitare un controllo totale sull’efficienza ferroviaria, specchio di una più generale efficienza della nazione.

Il regime puntò con convinzione sulle ferrovie come vetrina per veicolare anche all’estero un’immagine del fascismo come buona amministrazione e grande capacità di gestione. L’aumento del volume del traffico viaggiatori e merci esaltato dal fascismo era in realtà un fenomeno che interessò l’intera Europa, che tra il 1925 e il 1930 conobbe uno straordinario sviluppo delle infrastrutture. Inoltre, il governo fascista beneficiava di quanto già fatto dai governi precedenti. Nel 1905 il governo Giolitti aveva predisposto un progetto di legge che prevedeva la nazionalizzazione delle ferrovie. Durante gli anni del fascismo il chilometraggio della rete su rotaie non era sostanzialmente aumentato rispetto al periodo 1905-1920, fatta eccezione per il completamento delle linee “direttissime”. Queste linee di scorrimento veloce erano già state progettate prima della Grande Guerra, ma vennero identificate dall’opinione pubblica come una realizzazione fascista. La prima “direttissima” fu la Roma-Napoli, inaugurata il 28 ottobre 1927 in coincidenza con l’anniversario della marcia su Roma. I lavori erano iniziati nel 1907 ma si dovettero interrompere durante la Grande Guerra. L’altra direttissima fu quella dell’Appennino tra Bologna e Prato. I lavori iniziarono nel 1913 ma, anche in questo caso, le vicende belliche ne rallentarono la costruzione.

Il fatto che non si sentisse parlare di treni in ritardo non significa che ritardi non ce ne fossero. A partire dalla prima legge sul controllo dei giornali del 1925, tutte le notizie relative alla vita pubblica finirono sotto stretto controllo del regime. La propaganda nascondeva o minimizzava programmaticamente qualsiasi tipo di disservizio e, in molti casi, persino gli incidenti ferroviari. Negli anni Trenta, il giornalista americano George Seldes si occupò di un’inchiesta sul mito dell’efficienza dello stato fascista. «Gli agenti di stampa – scriveva – e i filosofi ufficiali del regime spiegavano al mondo che gestire i treni fosse il simbolo della restaurazione della legge e dell’ordine rispetto al disordine lasciato dai governi precedenti. Nessuno, però, si è preso mai il disturbo di spiegare che durante la Guerra, l’Italia, per mantenere efficienti truppe e rifornimenti al fronte, aveva frazionato e disorganizzato le ferrovie di proposito.» A prova del fatto che la puntualità dei treni fosse appunto solo un mito, una fake news propagandata dal regime, Seldes registrò, durante la sua permanenza in Italia, una serie di gravi disservizi e incidenti taciuti dalla stampa italiana. Riporta, inoltre, di grandi differenze tra le linee veloci (le “direttissime”) e quelle locali. Se le prime, effettivamente, erano caratterizzate da un certo grado di efficienza, le seconde erano in balia di disservizi, ritardi e incidenti. L’attenzione maniacale dedicata al funzionamento e all’efficienza dei treni, così centrale nella propaganda, alla prova dei fatti rivelava invece un sistema ancora arretrato e deficitario rispetto agli altri paesi europei.

La stampa americana, che aveva sempre dimostrato poco interesse per la politica italiana, a partire dall’evento della Marcia su Roma cominciò ad occuparsi del nostro paese, per un misto di curiosità e preoccupazione che l’imporsi del nuovo dittatore suscitava nell’opinione pubblica americana. Molti inviati, che restavano in Italia giusto il tempo di un’intervista, descrivevano Mussolini con toni entusiastici, esaltandone il decisionismo e la capacità di imporre finalmente regole agli italiani, popolo anarchico per eccellenza. Percezione diversa avevano invece i corrispondenti di stanza a Roma, che potevano osservare più da vicino i meccanismi violenti della dittatura.

La censura voleva esercitare sui corrispondenti esteri lo stesso controllo che aveva sulla stampa italiana, allineando resoconti e opinioni alla vulgata del regime. Chi non si lasciava controllare o corrompere, diventava oggetto di minacce e rappresaglie da parte della polizia politica, fino ad arrivare all’espulsione. John C. Oestreicher, responsabile a New York del gruppo Hearst per la stampa estera, racconta bene i mezzi usati dal regime per intimidire i giornalisti e la politica dei giornali a riguardo: « per poter riferire del bombardamento su Guernica, i corrispondenti dovevano adattarsi a raccontare le ridicole performance sportive di Mussolini cavallerizzo o nuotatore, o a enfatizzare come i treni ora giungessero puntuali o fare l’elogio della bonifica delle paludi pontine. Era meglio far così che essere espulsi e far trovare scoperti giornali e agenzie nel caso accadesse qualcosa di veramente importante.» La maggior parte di giornalisti rimase, tacendo e raccontando in seguito. Altri, come George Seldes, «riuscirono a far passare le notizie clandestinamente, combatterono la censura e accettarono l’espulsione come parte del gioco.»

Dietro il mito dei “treni che arrivano in orario” c’è, dunque, un cortocircuito creato dalla propaganda, sfuggito alla damnatio memoriae del Dopoguerra e alimentato oggi da un pensiero nostalgico nei confronti dell’uomo forte. È uno slogan che sfrutta inevitabili frammenti di verità non inseriti criticamente in una visione complessiva del tema. Insomma, la migliore analisi ce la offre una battuta di Massimo Troisi nel film Le vie del Signore sono finite: «Mica c’era bisogno di nominarlo capo del governo, bastava farlo capostazione»

FONTI 
ARCHIVIO CENTRALE DELLO STATO, SEGRETERIA PARTICOLARE DEL DUCE;
ARCHIVIO DELLE FERROVIE DELLO STATO, BOLLETTINO UFFICIALE DELLE FERROVIE;
IL POPOLO D'ITALIA, ANNI '20-'30;
GEORGE SELDES, Sawdust Caesar: The Untold History of Mussolini and Fascism.
PER APPROFONDIRE 
CANALI, La scoperta dell'Italia. Il fascismo raccontato dai corrispondenti americani, ed. Marsilio;
MAGGI, Le Ferrovie, ed. Il Mulino.