a cura di Diego Begnozzi e Andrea Sciotto
Vale per tutto, vale anche per la politica monetaria. Quando finirà la crisi l’auspicio è di non tornare alla visione di un’Europa unita solo da una moneta e poco altro – perchè quell’Europa era un problema.
Nella puntata precedente abbiamo discusso di come l’euro fosse nato per creare un’Area valutaria ottimale, combattere l’inflazione e risolvere in maniera definitiva le crisi valutarie che avevano colpito l’Europa nei primi anni ’90.
L’inflazione è scomparsa (anche se è lecito chiedersi se questo sia dovuto all’euro in sè o al cambiamento strutturale dell’economia, ma è un discorso per un’altra puntata), le crisi valutarie sono scomparse (anche perchè per avere una crisi valutaria devi avere monete diverse…) ma l’Eurozona è tutto meno che un’Area Valutaria ottimale.
Sono però subentrate nuove problematiche, che rendono lecito chiedersi, dopo vent’anni di onorato servizio: l’euro, così com’è adesso, funziona?
Le critiche all’euro sono un argomento più o meno quotidiano in un certo dibattito politico. Ecco, mettiamo le mani avanti: l’euro non è che non funzioni perchè i tedeschi ci odiano, perchè Angela Merkel decide lo spread, perchè c’è un tizio di nome Klaus che è cattivo.
L’euro è stato al centro di lunghe discussioni nel panorama economico internazionale, ricevendo critiche sia da destra che da sinistra.
Da destra, probabilmente basta citare Milton Friedman, teorico dell’economia liberista che ha influenzato tutto il pensiero economico e politico dagli anni ’80 in poi. Friedman già nel 1998 evidenziò come l’euro fosse una scelta dirigista di un’élite europea (scelta non democratica ma imposta “dall’alto”) che punta all’unione politica e a un maggior peso degli enti regolatori di Bruxelles (una posizione molto simile a quella di Margaret Thatcher, che era contrarissima all’UE).
Secondo il filone liberista, l’unificazione monetaria – in assenza di flessibilizzazione e deregulation – ridurrebbe la libertà del mercato e darebbe un peso eccessivo al ruolo dei banchieri centrali.
Poi per fortuna abbiamo deregolamentato tutto, introdotto la flessibilità nel mondo del lavoro, e adesso l’Europa è un posto magnifico, no?
Da sinistra, invece, le critiche sono più variegate.
Premi Nobel come Amartya Sen, Joseph Stiglitz, Paul Krugman e molti altri (citiamo Christopher Pissarides e Rudiger Dornbusch) evidenziano due temi, su piani differenti ma strettamente interconnessi:
- una moneta unica fra Paesi differenti sottrae l’unico strumento di ribilanciamento ed eguaglianza, cioè il tasso di cambio;
- una moneta unica fra Paesi incentiva una concorrenza interna che, a livello politico, porta inevitabilmente all’insorgere di nazionalismi.
Partiamo dalla prima. Una moneta unica fissa, per definizione, il tasso di cambio fra i Paesi a 1: un Euro italiano e un Euro tedesco valgono esattamente allo stesso modo, sempre. Il problema nasce quando in Italia e in Germania la struttura dei costi è differente: supponiamo che in Italia i salari siano esattamente il doppio che in Germania. Di conseguenza, è lecito aspettarsi che il prezzo di un bene prodotto in Italia sia superiore al prezzo dello stesso bene prodotto in Germania. Il francese cosa compra?
Non si tratta di un esempio astratto: è esattamente quello che è successo in Europa all’inizio degli anni 2000. Dalle riforme di Schroeder in poi i salari tedeschi sono rimasti sostanzialmente fissi, compressi verso il basso (fino al 2012 sono cresciuti meno dell’inflazione e della produttività!) in nome della competitività sui mercati esteri. Mercati esteri che non si potevano difendere tramite la leva del cambio, perchè la moneta era la stessa. E quindi il dumping salariale tedesco ha permesso all’export teutonico di crescere, conquistare fette di mercato sempre maggiori, mangiandole al resto degli stati europei.
Passando alla seconda, una moneta unica crea una competizione interna fra gli Stati, soprattutto sul piano della tassazione e dell’attrazione di imprese.
Sapete cosa hanno in comune FCA, Eni, Luxottica e Ferrero?
- Sono tutte aziende che operano in Italia
- Sono tutte aziende con sede fiscale nei Paesi Bassi
Perchè nei Paesi Bassi?
Vorremmo poter dire che è perchè la vista dei canali di Amsterdam o dei caratteristici mulini a vento di Kinderdijk mette di buon’umore, ma in realtà è perchè il regime fiscale e la normativa di gestione delle imprese, nei Paesi Bassi, sono più favorevoli rispetto a quella italiana.
Senza entrare in eccessivi tecnicismi, nei Paesi Bassi non sono tassati alcune fonti di reddito – ad esempio capital gain e interessi da partecipate – e le imposte sono generalmente più basse.
Discorso simile vale ad esempio per l’Irlanda, in cui la tassazione sugli utili è al 12,5%, contro il 24% italiano.
Insomma, senza aprire il complesso tema dei paradisi fiscali, appare evidente come in un mondo in cui è permessa la libera circolazione dei capitali fra Stati con regimi fiscali differenti si crea un incentivo pazzesco a giocare al ribasso: abbasso l’aliquota sul reddito delle società, sperando di rubare società estere e aumentare la mia quota di entrate.
Ma quindi l’euro è una debacle totale?
No. Sia a livello aggregato che a livello di singoli Stati ci sono degli evidenti vantaggi: da quando si è iniziato a pensare all’euro i tassi d’interesse si sono abbassati in tutta Europa, permettendo un finanziamento del debito pubblico – ad esempio – a costi inferiori.
Anche a livello di singoli Paesi ci sono esempi di stati che hanno tratto benefici all’appartenenza alla moneta unica – e non perchè partecipato al gioco al ribasso di cui dicevamo prima. Un esempio di questo è il Portogallo.
Quindi, quale futuro per l’euro? Per far sì che la moneta unica funzioni – e sopravviva – è indispensabile affrontare i problemi intrinseci alla sua natura: dotare gli Stati di nuovi strumenti per riequilibrare i differenziali di crescita e di produttività, dal momento che quelli principali – il tasso di cambio e le restrizioni sui movimenti di capitali – sono assenti.
Questo però rende necessaria un’evoluzione del concetto di Unione: in una vera Area valutaria ottimale il riequilibrio è raggiunto tramite trasferimenti dalle aree più ricche a quelle più povere (o da quelle meno colpite da shock a quelle più colpite, come nell’attuale situazione).
Ad oggi, invece, siamo inchiodati dal trilemma di Rodrik, che evidenzia come sia impossibile avere, contemporaneamente, democrazia, sovranità nazionale e integrazione economica globale.
A quale siamo disposti a rinunciare?